Forse mi sbaglierò; ma, sotto un profilo almeno sociologico, il soggetto sociale più irruente, promettente e fantasioso della nostra intorpidita popolazione nasce e vive nelle nostre contrade. E fa un palmo di naso a certi vitelloni abbandonati che ancora stancano la piazza del paese.
Sì, proprio in quelle contrade che hanno avuto, negli ultimi decenni, una mutazione antropica selvaggia e brutale; che le ha spogliate d’ogni straccio di bucolica decenza per farne un luogo incerto del futuro, abitato da giovani svogliati e d’insolente intelligenza.
Il campo incolto avanti casa prova già il rifiuto del retaggio familiare, che voleva forse farne contadini a tempo perso.
E la musica che stromba dalle finestre aperte di fabbricati multipiano, costruiti coi proventi di generazioni svernate su in Germania, la dice lunga sui loro gusti nuovi e sulla loro voglia di cambiare: come ricorda il titolo d’un romanzo breve, germinato dalle ansie di quei luoghi.
L’integrazione tra città e campagna, nodo irrisolto d’un’intera Italia che ancora tarda a smettere il suo antico volto agreste e contadino, procede qui da noi a saltelloni.
Strade d’asfalto, piene di buche e dossi, si slanciano entro valli e risalgono colline; file di pali elettrici portano smorta luce a grilli canterini infossati nei canali; la minaccia d’orrende pale eoliche che ruotano silenti sopra colli ancora vergini toglie il canto ai galli: disperate tarantelle e falso rock&roll si battono a cazzotti in balere improvvisate.
Un mondo ed il suo ethos sono andati a rotoli; e quel panorama di colline verdi che conoscevamo s’è sgranato in frane, smottamenti e casermoni.
Ma proprio il magma incandescente di questa eruzione lenta sembra fecondare il terreno d’un umore nuovo: che scombina vecchie logiche paesane e reclama quel che la campagna, fin dal medioevo, ha sempre reclamato: di essere soggetto di proposta della vita pubblica. Un luogo dove arrivano le strade, ma partono pure idee di ritorno, utili a modellare nuove regole di vita per l’intera società.