Giorno 28 dicembre 2018, presso la sede della Pro Loco di Cetraro (CS), si è svolta, come ogni anno, la manifestazione culturale dedicata alla lettura di poesie natalizie e alla declamazione di un canto del Paradiso dantesco. L’evento, arrivato ormai alla sua X edizione e mediato dalla sottoscritta, dott.ssa Alessandra Garozzo, è stato organizzato dalla Pro Loco Civitas Citrarii insieme alla cortese collaborazione della Parrocchia San Pietro Apostolo di Cetraro.
Dopo i saluti del Presidente della Pro Loco, prof. Ciro Visca, si sono succeduti, in ordine di intervento,
– Marina De Pasquale (“Natale” – V. Padula)
– Franca Cristofaro (Considerazioni sul Natale – Giovanni Forestiero)
– Maria Gravino (“Natale” – Federico, alunno di IV elementare di Spinaceto)
– Marietta Gallo (“Il Natale” – A. Manzoni)
– Francesca Pepe (L’Epifania – F. Cipolla)
– Marco Pepe (Intervallo musicale al clarinetto)
– Vilma Gallo (XIX Canto del Paradiso – Dante Alighieri)
– Don Luigi Gazzaneo – Conclusioni teologiche
Il tema del Natale
Il tema del Natale, ancora una volta, è stato affidato ai versi della Poesia grazie alla quale sono nati importanti e stimolanti spunti di riflessione. Interessante è il pensiero di Padre Giuseppe Santarelli, direttore dell’editoriale Il messaggio della Santa Casa di Loreto, che in un articolo del suo giornale scrive: «Si può affermare che il Natale di Gesù abbia avuto inizio nella Casa di Nazaret con il suo concepimento nel grembo della Vergine Maria per opera dello Spirito Santo».
Il “farsi carne” non designa solo l’uomo in genere ma anche l’uomo in specie, nella sua fragilità, limitatezza e morte. È un’espressione, questa, che mette in risalto anche il volontario abbassamento di Cristo nel mistero dell’Incarnazione, quello che san Paolo chiama “svuotamento” o “spogliamento” (Fil, 2, 79) del Figlio di Dio che ha voluto condividere la nostra natura umana in tutta la sua debolezza. Lo stesso Papa Benedetto XVI, parlando a Monaco il 10 settembre del 2006, spiegava le parole del profeta Isaia, il quale dice: «Coraggio! Non temete ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi» (Isaia 35, 1-2). Ma di quale vendetta parla Isaia? Non di certo di quella che sono solita fare gli uomini “occhio per occhio, dente per dente”. Papa Benedetto commenta dicendo che: «Noi possiamo immaginare facilmente come il popolo si immaginasse tale vendetta, ma il profeta stesso rivela poi in che cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. La spiegazione definitiva la troviamo in colui che è morto sulla croce, il no alla violenza, l’amore fino alla fine».
Dante la Misericordia
Come, nel corso della serata, ha giustamente evidenziato la prof.ssa Gallo, illustrando magistralmente il XIX canto del Paradiso dantesco, la misericordia e la giustizia divina sono temi ricorrenti nella Commedia dantesca. Il Canto sopracitato rimette al centro della riflessione e dell’incontro con Dante la Misericordia.
Ci troviamo nel sesto cielo, Giove. Se nel cielo rosseggiante di Marte le anime sono disposte in un’immensa croce scintillante di luci, qui, in contrapposizione, a stagliarsi di fronte a Dante è l’immagine serena di un’aquila che distende le sue ali a protezione e dominio su tutto il cielo di Giove, brillando di un colore fulgente. Formata da migliaia di spiriti giusti fruenti della visione divina e somiglianti a scintillanti rubini colpiti dai raggi del sole, l’aquila parla della giustizia con un’unica voce. Dante si accinge a descrivere una cosa straordinaria. Pur trattandosi di migliaia di anime esultanti, è al singolare che l’aquila emette la sua voce dicendo “io” e “mio” anziché “noi” e “nostro”. In tutto il Paradiso Dante cerca di capire, rintracciare, vedere uno dei misteri della Fede: l’unità e la Trinità di Dio.
Secondo Chimez, infatti, «la giustizia in qualunque luogo o tempo, chiunque sia la persona che la eserciti sulla terra, è una sola, come una è la volontà di Dio». E così, queste anime singolari, identificabili, che non si perdono in un indefinito insieme dove tutto è uguale, rimanendo ciascuna quel che è, parlano di sé come di una unità. L’aquila inizia il suo discorso associando due aggettivi che tante volte si contraddicono nell’esperienza umana, “giusto e pio”. Gli uomini sono incapaci di accordare misericordia e verità. Per affermare la giustizia tendono a diventare violenti e nel voler essere buoni finiscono per compromettere la verità. Ma ciò che per gli uomini è una coesistenza incompatibile, è invece possibile e realizzabile nell’esperienza divina.
La Misericordia e la Verità si incontrano nell’esperienza della santità e tutte le anime che hanno vissuto così, giuste e pie insieme, sono elevate alla gloria. Dante, che aveva già trovato la certezza della giustizia divina come unica vera fonte di ogni giustizia umana, qui prende coscienza che essa è anche amore: «Il pellegrino ritrova ora un senso assai più alto della giustizia di quello per cui aveva tanto combattuto nel mondo. È per lui un sollevarsi dalla parzialità e dagli errori del mondo a una visione assai più alta e luminosa » (Montano).
Senza bisogno che Dante parli, l’aquila formula al suo posto il dubbio che il Poeta ha più volte espresso nell’Inferno e nel Purgatorio, senza però venirne mai a capo. Egli paragona il suo desiderio di sapere a un digiuno che lo ha tormentato per anni senza trovare cibo in grado di sfamarlo, ovvero una spiegazione adeguata. È Dante stesso, dunque, a manifestare il suo dubbio, senza tuttavia esprimerlo direttamente ma lasciando che siano i beati a leggere nella sua mente e a sfamare il lungo “digiuno”.
Giustizia divina la dannazione eterna
Accade qualcosa in modo opposto a quanto avvenuto con l’avo Cacciaguida quando Beatrice aveva esortato il Poeta a domandare per consentire allo spirito di esaudire il suo desiderio. Dante si domanda in che modo si possa accordare all’idea di giustizia divina la dannazione eterna di coloro che senza colpa non conobbero Cristo ma vissero secondo le leggi della morale naturale. Se un uomo nasce dove nessuno parla di Cristo, eppure vive una vita corretta senza peccato e virtù, muore battezzato e senza fede, dov’è la sua colpa se non crede? Perché non dovrebbe godere della beatitudine eterna?
L’aquila redarguisce Dante che, in quanto uomo, non può certo ergersi a giudice di una questione tanto profonda, né pretendere di vedere con la sua vista limitata una verità che dista mille miglia. Con un discorso complesso l’aquila sostiene l’imperfezione e la limitatezza della ragione umana al cospetto di quella divina e dichiara che la giustizia di Dio è imperscrutabile. L’intelletto umano non può pretendere di penetrarne i segreti ma deve accettare la verità della fede. È un ammonimento agli uomini a non essere superbi come Lucifero e a non ribellarsi perché ogni tentativo di comprendere razionalmente le sentenze di Dio in materia di salvezza è destinato a fallire.
Dogma e sentimento
Secondo il Mattalia l’accettazione dell’imperscrutabilità delle divine deliberazioni «non esclude né vale ad eliminare una oscura e quasi angosciosa resistenza della ragione e del sentimento morale». Se è esatto il rilievo relativo allo stato d’animo iniziale del Poeta, il critico vede, nella conclusione della lezione teologica dell’aquila, un sentimento di angoscia che in realtà non esiste. Il contrasto nell’animo di Dante tra dogma e sentimento, tra credente e uomo, di fronte alla condanna del mondo che non aveva conosciuto la fede, appare qui superato in virtù di una serena accettazione (che non esclude, tuttavia, la tristezza per quella condanna).
Con una finezza stilistica in cui la parola Cristo non rima mai con nessun’altra se non con se stessa, quasi fosse irriguardoso e blasfemo, il Poeta, attraverso la voce dell’aquila, spiega che alla fine di questo regno, il Paradiso, non salì mai chi non credette in Cristo. Il Canto affronta il delicato e complesso tema della giustizia divina e della salvezza, formando una sorta di “dittico” con il Canto XX che ne costituisce un corollario con gli esempi di Traiano e Rifeo, i due pagani che a dispetto di ogni previsione si trovano tra gli spiriti giusti in Paradiso. La citazione di tali figure prepara il terreno alla polemica contro la corruzione ecclesiastica che occuperà i Canti successivi. Forse non a caso gli ultimi passi del Canto XIX terminano con un’ulteriore finezza stilistica di Dante. Le dodici terzine che iniziano al v. 115 si possono raccogliere in tre gruppi di quattro e cominciano rispettivamente con le parole Lì si vedrà, Vedrassi, E, formando l’acrostico LVE («lue») che si può intendere come sinonimo di «peste» (riferito al cattivo esempio offerto dai principi corrotti).
La salvezza
Uno degli scrittori destinati ad affrontare l’argomento “salvezza” e a prendere le distanze dalla posizione ufficiale della Chiesa fu Luigi Pulci (1432-1484), autore alla fine del XV sec. del poema epico Morgante. La sua posizione, totalmente antitetica rispetto a quella di Dante e della Chiesa stessa del Quattrocento, suscitò polemiche e accuse anche in ambiente umanistico e spiega il fatto che l’autore morì in odore di eresia venendo sepolto in terra sconsacrata.
L’invettiva di Dante contro i politici e la Chiesa del tempo è riconosciuta anche da Paolo VI che in piena coscienza storica e morale non nega né vuole nascondere le “aspre rampogne” che Dante lanciò contro ecclesiastici e pontefici; esse, tuttavia, non hanno mai scosso la ferma fede cattolica del Poeta: «Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti. Non noi nasconderemo questo momento del suo spirito e questo aspetto dell’opera sua, ben sapendo da un lato quale e quanta fosse l’amarezza dell’animo suo, la quale tanta era da risparmiare ben più acerbi rimproveri alla stessa dilettissima sua patria Firenze».
Paolo VI
Come ha sostenuto Don Luigi Gazzaneo nelle conclusioni teologiche dell’evento, Paolo VI, in diversi momenti del suo pontificato, mostrò un particolare affetto e legame per Dante Alighieri definendolo “Il signore dell’altissimo canto”. Nel 1965, sesto centenario della nascita del Poeta, donò e fece porre sulla lastra marmorea della sua tomba, in San Francesco a Ravenna, una croce d’oro e nello stesso anno fece collocare una corona d’oro col monogramma di Cristo nel Battistero di San Giovanni a Firenze, dove Dante era diventato cristiano.
Benedetto XV
Anche papa Benedetto XV aveva dedicato l’attenzione del suo magistero al poeta fiorentino nella ricorrenza della nascita dando al suo documento addirittura la veste solenne dell’enciclica, In praeclara summorum. Nell’enciclica, il Papa sottolinea come l’esempio di Dante testimoni quanto i valori religiosi contribuiscano a promuovere il genio umano e come, di conseguenza, la loro assenza nel processo formativo dei giovani danneggi il progresso degli studi e della civiltà. Benedetto XV auspica dunque che Dante sia assunto a maestro di dottrina cristiana per gli studenti sia nell’arte che nella virtù. In un altro passo dell’enciclica rimarca il fatto che la più bella lode che si possa tributare a Dante è di essere stato un «poeta cristiano», cioè di «aver trovato accenti quasi divini per cantare le istituzioni cristiane di cui egli contemplava con tutta l’anima, la bellezza e lo splendore». Nel definire la Commedia «il quinto Vangelo», Benedetto XV dichiara quindi che Dante è «il più eloquente tra quanti hanno cantato e proclamato la sapienza cristiana».
Benedetto Croce
Paolo VI prosegue in questa attenzione della Chiesa per il suo celebre figlio e propone una lettura complessiva dell’opera di Dante, di cui mostra un’approfondita conoscenza, ma di cui offre anche un’interpretazione nuova. Nuova e polemica, perché cristiana: Paolo VI rivendica con forza la dimensione fondante del cristianesimo dantesco, in opposizione a quanti hanno sostenuto che la Divina Commedia «non fosse poetica quando e dove è impregnata di teologia». Non è difficile riconoscere in questa espressione un’allusione a Benedetto Croce che, benché scomparso, ancora molto influente sulla critica italiana. Egli aveva sostenuto nella Poesia di Dante la “non poeticità” delle parti dottrinali del poema: principio diventato poi un luogo comune della critica dantesca italiana.
La legge divina, protagonista del Canto XIX, è stata data agli uomini perché raggiungessero la felicità sia nella vita terrena che in quella eterna, seguendo il vero bene e rifuggendo il male. «È chiaro che nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, il genere umano si trova nelle migliori condizioni per perseguire il suo fine specifico, che è quasi divino, secondo quel famoso passo: “l’hai fatto poco meno degli angeli” (Ps. VIII, 6)». «Questa pace – che riguarda i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica -, questa tranquillità dell’ordine è turbata e scossa perché la pietà e la giustizia vengono disprezzate. Perciò, per restaurare l’ordine e la salvezza, vengono chiamate a illuminare, in reciproca armonia, la Fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e l’Aquila, la Chiesa e l’Impero, la ridestata coscienza della condizione in cui sono posti gli uomini sulla terra; e intanto viene predicato l’universale annuncio – oscuro ma certo – del secolo venturo. Il cielo e la terra insieme fanno risuonare questo Vangelo di pace».
Benedetto XVI
Benedetto XVI non è meno legato a Dante dei suoi predecessori e più volte, già da cardinale, ricorda e cita il sommo poeta. Nel libro Introduzione al cristianesimo, scrivendo dello «scandalo del cristianesimo», cioè di Cristo Figlio di Dio fattosi uomo, quindi del significato dell’essere che va ricercato non nel mondo delle idee ma nel volto di un uomo, rammenta la concretezza di questo pensiero nella conclusione della Divina Commedia di Dante: «Dentro da sé del suo colore istesso,/ mi parve pinta della nostra effigie,/ per che il mio viso in lei tutto era messo». Dante, «contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, ossia un volto umano, esattamente in centro all’abbagliante cerchio di fiamme formato da “l’amore che move il sole e l’altre stelle”».
Benedetto XVI riprende questo tema e questi versi per spiegare il significato profondo della sua prima enciclica Deus caritas est. Incontrando i partecipanti a un congresso organizzato dal Pontificio consiglio «Cor unum», il pontefice afferma: «Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano».
Papa Francesco
Papa Francesco, che si accosta ai suoi predecessori nella lode e nell’ammirazione per questo grande poeta e credente, nella sua prima enciclica, Lumen fidei, aveva raffigurato la luce della fede, che avvolge e coinvolge l’intera esistenza umana, attraverso un’immagine dantesca, la «favilla,/ che si dilata in fiamma poi vivace/ e come stella in cielo in me scintilla» (Paradiso XXIV, 145-147).
Come ribadì Papa Montini nella Lettera apostolica motu proprio, la Altissimi cantus, dedicata a Dante Alighieri in occasione del settimo centenario della sua nascita, “Dante è Nostro”, è Nostro in senso universale, è Nostro in senso di fede cattolica.
«Dante è nostro, ci sia lecito ripetere a ragione, e lo affermiamo non per gloriarci di un tale trofeo per un amore ambizioso e orgoglioso, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nella sua opera le ricchezze inestimabili della forza e del senso del pensiero cristiano, convinti come siamo che solo chi scava nelle segrete profondità dell’animo religioso del sommo poeta può comprendere a fondo e gustare con pari piacere i meravigliosi tesori spirituali nascosti nel poema».