Ci son di quelli, che pensano ancor oggi che la cultura sia tutto tempo perso: un intrattenimento da esaltati o il passatempo prediletto di menti rammollite, alternativo solo alla caccia di farfalle o alla ricerca di conchiglie sulla spiaggia.
Basta quel tanto che si è stiracchiato a scuola, sopra i libri di testo e Wikipedia, per diventare presto avvocato o professore e chiedere alla vita il successo che ci spetta: senza aggiungere un’inutile appendice che toglie solo tempo al tempo ed anzi infastidisce.
Fatti e non parole, dice il preteso realista. Lo spread è a 500, i negozi chiudono, gli usurai festeggiano e tu pensi a rinfrancarti lo spirito con l’arte e con la musica? Picasso e Stravinskij poco servono a portare in tavola il pane ed il salame. Ci vuole il lavoro e uno stipendio fisso che dia sicurezza per fondare una famiglia e vivere tranquilli.
Eppure il povero De Giacomo, che è stato qui a Cetraro un uomo di cultura, annotava con un lapis sopra un foglio come “la povertà, prima che nelle nostre tasche, è nelle nostre teste”.
Che avrà voluto dire, il caro professore, con questo suo sottile ammonimento?
Che la cultura, in fondo, è il lievito della civiltà. Essa genera interessi – nobili interessi – che si tramutano in bisogni che sono poi occasione di crescita e lavoro.
Un lavoro finalmente produttivo e votato ad aumentare la qualità della vita del luogo in cui viviamo. Quello che non si trova nei bandi di concorso della Gazzetta Ufficiale; ma che dobbiamo avere la forza ed il coraggio di far nascere da noi, in casa nostra. Ricorrendo al consiglio che l’effimera cultura, non poi del tutto inutile e superflua come sembra, ci porta sotto forma di nuovo e intraprendente.