Spare Filici Lanza! ’Na vota spare Filici Lanza!
Sono frasi con significato negativo, canzonatorio; non si vuole mettere in evidenza una qualità, il valore del personaggio, ma un suo difetto. Infatti, lo storico cetrarese G. De Giacomo (1867- 1929) afferma chiaramente che Felice Lanza “non sapeva mirar diritto”.
Il De Giacomo, parlando della celebrazione di una non documentata vittoria cetrarese sui Turchi, dice: “…le campane suonano in gloria, e suona finanche la campanella della montagna. Pur quella, solitaria, lassù, che noi, forse tardi venuti al mondo, ricordiamo sul formidabile monte, presso ‘Sinàtula’. Abbattuta or pure quella campanuccia da mani sacrileghe, ma ancora il viandante ricorda: era qui. E a quella sparò Felici Lanza che non sapeva mirar diritto, e colpì…”.
Da questo passò non risulta che il De Giacomo abbia affermato che il Lanza “ha sparato il colpo di cannone che ha centrato la nave turca”. A me sembra, invece, che lo storico cetrarese abbia voluto testimoniare che ancora nei suoi verdi anni, sulla montagna, presso Sinàtula, esisteva una campanella, che con il suo suono di gloria aveva contribuito a diffondere la notizia che il Turco era stato sconfitto, come ci ha tramandato il ‘Canto della Torricella’”:
Spare la Turricella, e fa primera:
ruppe la vila granna e la menzana;
da Santa Maria s’auze ‘na bannera,
da la muntagna sone la campana:
Da la Testa puo’ spuntu’ li galeri,
e ‘matula lu tristu s’alluntane!
E lu Viecchiu puo’ scinne a la marina:
‘Mpare la Vemmaria a lu Turchiu canu!
Quella campana, negli ultimi anni di vita del De Giacomo, non esisteva più; era stata sottratta “da mani sacrileghe”, ma i vecchi la ricordavano ancora, anche perché Felici Lanza, un cetrarese nato il 1803 e morto il 23 settembre 1883, non avendo “la mira buona”, aveva erroneamente colpito quel bronzo sacro.
La leggenda secondo cui il Lanza avrebbe sparato il colpo decisivo contro la flotta turca è recente e posteriore alla scomparsa del De Giacomo e nata da qualche decennio per errata interpretazione popolare del testo lasciato dal nostro storico.
La parola “colpì”, l’ultima del passo del De Giacomo, seguita da puntini sospensivi, è stata collegata arbitrariamente a “nave turca”, anziché con la parola campana e così la leggenda ha avuto origine: Filici Lanza colpì la nave turca, Filici Lanza colpì la flotta turca.
Il chiaro prof. Gaetano Bencivinni,…, ha fatto bene a riportare tale leggenda nei suoi “Quaderni di Unità Sindacale”.
Felice Lanza, a mio parere, non è un personaggio leggendario vissuto nel secolo XVI. Egli, figlio di Tommaso Lanza, era a sua volta zio o padre di quel Tommaso Lanza borboniano che partecipò, a Cetraro, subito dopo l’unità nazionale, alle insurrezioni contro i Savoia.
Felice Lanza, nominato con delibera comunale del 7 ottobre 1844 Servente Aggiunto, venne applicato a guardia campestre, cosa che lo costringeva a girare armato per le nostre campagne.
Sicuramente, il De Giacomo, da ragazzo, aveva conosciuto il vecchio Felice Lanza, morto nel 1883 all’età di ottantanni. Infatti, lo scrittore cetrarese, nel suo riferimento al Lanza, dà l’impressione di parlare di una persona a lui nota e su cui si raccontavano numerosi aneddoti. Era uno dei tanti Luigi Vicenza.
Il popolo, senza che lo storico cetrarese lo avesse previsto, ha trasformato un modesto inserviente in un eroe mitico (…).
Devo precisare che la frase spare Filici Lanza veniva usata, a Cetraro, per le persone che parlavano poco, ma che quando aprivano bocca combinavano guai. Infatti, Felici Lanza aveva finito di rovinare un vetusto campanile. A Cetraro, gli anziani, ogni anno, in occasione della festa di S. Biagio, che si svolge nella contrada omonima di Santu Grasu, parlando di una tradizionale gara tra cacciatori, ricordano che una volta un concorrente invece di colpire “a pezza d’u casu”, ossia il bersaglio che dava diritto al premio messo in palio, aveva colpito il campanile della chiesa, presso cui si svolgevano le manifestazioni. I due fatti, della campana di Sinàtula e del campanile di S. Biagio, potrebbero avere una relazione tra di loro.
Il Canto della Torricella era stato dettato al De Giacomo dal vecchio Mantenga. Egli era un marinaio cetrarese, un nocchiere, ossia un capobarca morto il 1913, all’età di anni 65 (sic ma 75). Si chiamava Serafino Bellomusto, alias Finuzzu Mantenga; abitava nel rione Cannone. I suoi eredi sono i Bellomusto di Acquappesa, Pasqualina Bellomusto, vedova Sirio, e i Bellomusto di Montevideo. I pescatori Biagio Tricarico, Ferraro Giuseppe e Albano Afredo, nati nel 1902 e ancora viventi, lo ricordano bene.
Il “Canto della Torricella”, ora meglio noto come il canto di Mantenga, era patrimonio di tutti i pescatori cetraresi ed essi lo cantavano spesso nelle “cantine” e ripetevano il primo verso, “spare la turricella e fa primera” , ogni volta che colpivano un bersaglio, sia quando giocavano a bocce, sia quando praticavano i giuochi del “masrillu con le stecce” e di “castielli ‘i nuci ccu’ a minara”.
Mio padre, nato il 1902 e morto il 1982, mi raccontava che “A Turricella” non aveva grandi dimensioni ed aveva una forma di mezza luna, simile alla base del nostro “Cannone”. La Turricella, la torre del fortilizio di cui si parla nei documenti del Trecento, la maggiore fortezza di Cetraro fino al secolo XVI, era situata sull’ultimo tratto di costone roccioso della sponda sinistra dell’Aron, all’altezza della palazzina del signor Gioacchino Scavella. Il sito della Turricella consentiva alla fortezza di vigilare sul porto medioevale, sull’arsenale, sulla dogana, sui mulini, “sull’acquaro” e sulla Porta di Mare, porta che consentiva l’accesso al Paese.
La Torricella venne abbattuta nel secondo decennio del Novecento per la costruzione della strada statale n. 18. I Cetrraresi non si opposero. A ogni buon fine, devo precisare che la Torre ’i Rienzu, nella prima metà del secolo XVI, non esisteva. Essa, come ho detto prima di ogni altro, probabilmente, è così chiamata dal nome di un suo torriere, Lorenzo Daniele.
Il canto, sopra riportato, presenta delle varianti lessicali e morfologiche rispetto a quello trascritto dal De Giacomo. Mantenga e Lanza erano amici.
Nota: L’articolo sopra riportato è stato da me pubblicato su “Rinascita Sud”, nn. 10-11, ottobre-novembre 1989, e sul giornale della Pro loco di Cetraro , 2007, anno X, n. 4. Devo precisare che la mia considerazione sul nome della Torre di Rienzo si trova nel mio lavoro “Cetraro – Un occhio sul passato che conta”. Detto saggio è stato pubblicato, nel 1984, a puntate, sul giornale “Il Centro” e poi come libro il 12 novembre 1985. A pagina 19, del libro, c’è scritto: “La nostra fortezza è nota ai Cetraresi come “A Turra ‘i Rienzu”, dal nome, forse, di uno dei torrieri che la storia ci ha tramandato, Lorenzo Daniele, caporale nel 1668-69”. La mia congettura, successivamente, è stata usata da altri senza alcun riferimento a chi per primo l’aveva formulata. Come si può rilevare, ho segnalato certi fenomeni di non corretta metodologia fin dal 1989 e non saranno “ Stella Cometa” (il patriarca di Cetraro) e “Uno a caso” (il Ministro cetrarese alla pubblica istruzione) a farmi tacere.
Il Vecchio, di cui si parla nel canto, è San Benedetto.
Serafino Bellomusto, in verità, era nato il 1838 da Filippo e da Brigida Tundis. Egli, nel 1883, figura come testimone nell’atto di morte di Felice Lanza.
Devo, inoltre, precisare che anche Carmela Bellomusto (n. il 1914), morta pochi anni fa, era nipote di Mantenga. Da Carmela ho appreso tante notizie sul nonno.