Alla presenza di un qualificato uditorio, ha visto ieri la luce un evento cittadino di portata storica con il Gemellaggio tra RAI SENIOR, della Sede Calabrese Rai di Cosenza e il Centro Sociale Anziani di Cetraro Centro. Le numerose presenze non ne hanno consentito lo svolgimento presso la sede dell’Associazione per cui si è trovata ospitalità in quella più ampia, al piano inferiore, messa a disposizione dalla Pro Loco Civitas Citrarii.
Ha condotto e guidato la manifestazione Gaetano Bencivinni, nella sua qualità di responsabile del centroanzianicetraro.blogspot.it che ha, ancora una volta, evidenziato la sua efficace esperienza di coordinatore. Al tavolo della Presidenza si sono alternate le massime rappresentanze dei due Enti: Giampiero Mazza, fiduciario dell’Associazione Rai Senior Calabria e promotore dell’iniziativa; Demetrio Crucitti, direttore di RAI Calabria e vice presidente nazionale di Rai Senior; Romano Pellegrino, vice fiduciario dell’Associazione Rai Senior Calabria e Paola Gaglianone, responsabile delle Edizioni ERI. Erano presenti anche altre note personalità della Rai come Emanuele Giacoia, Vincenzo D’Atri e Vera Guagliardi. Tutti si sono detti entusiasti dell’iniziativa e disponibili ad espanderla adeguatamente in un prossimo futuro.
Mario Novello, ideatore e animatore del progetto, nella sua doppia qualità di membro dell’Associazione Rai Senior e di Vice presidente del Centro Sociale Anziani di Cetraro, ha dato inizio ai lavori, presentando il Direttivo, mentre Mario Antonuccio, presidente del Centro, ha portato il suo personale saluto. In sostituzione del Sindaco Giuseppe Aieta, impegnato in altra manifestazione, è intervenuto l’assessore Carmine Quercia, mentre ha concluso i lavori Fabio Angilica nella sua qualità di Assessore alla cultura.
La responsabile delle Edizioni Eri, Paola Gaglianone, espressamente giunta da Roma, ha quindi illustrato le finalità e il significato del premio la Giara, attribuito alla scrittrice Eliana Iorfida e ha letto alcune pagine del libro “Sette paia di scarpe”, affidato alla presentazione di Luigi Leporini.
Questi, seguito da un pubblico attento e intensamente partecipe, ne ha illustrato in maniera articolata il contenuto, mettendo, tra l’altro, in rilievo, insospettate e sorprendenti analogie tra le usanze di un lontano villaggio dell’estrema Siria, sede nel narrato, e consuetudini trascorse o attuali, esistenti in taluni strati della popolazione cetrarese.
Ha preso quindi la parola la stessa scrittrice Eliana Iorfida che ha narrato particolari interessanti della sua esperienza di archeologa in Siria, ha ringraziato Luigi Leporini per l’interpretazione autentica del suo pensiero e tutti gli altri per la calorosa accoglienza ricevuta.
La serata si è conclusa all’insegna di un cordiale, ricco e allegro incontro conviviale predisposto dalle attivissime componenti del Direttivo e delle altre socie del sodalizio.
*** A seguire il testo integrale della presentazione al libro “Sette paia di scarpe”, a cura di Luigi Leporini ***
Sette paia di scarpe
Premessa.
La presentazione di un libro, per quanto semplice possa sembrare, è, a mio avviso, un’operazione di una delicatezza estrema, specialmente quando chi l’ha scritto, ti sta davanti, tende l’orecchio, ti fulmina magari con uno sguardo veloce, in attesa di capire se hai capito veramente ciò che pensava scrivendo.
Ancora più delicato il compito, quando sai che il libro è passato con dieci e lode al vaglio di una commissione di esperti che gli ha assegnato un premio di altissimo prestigio come La Giara. E’ un compito assolutamente non facile, dinanzi al quale avverto i miei limiti, perché rischio di non interpretare, in maniera adeguata, sensazioni, emozioni, sentimenti e messaggi che l’autrice ha inteso comunicare.
Ma è un rischio che devi correre quando un amico come Mario Novello, una vita vissuta appassionatamente e intensamente in Rai, da alcuni anni, prestigioso animatore, come vice Presidente, di questo Centro Sociale, ti offre il privilegio e il piacere di farlo, per onorare una scrittrice che rappresenta autorevolmente, con le sue ricerche e i suoi scritti, la nostra Calabria.
Eliana Iorfida, infatti, è un’esploratrice che ha scavato nei luoghi-chiave in cui sono sepolti preziosi reperti delle antiche civiltà, ma che sa scavare ancora più a fondo, direi con una maggiore carica di sensibilità e una grande capacità di penetrazione, nei tesori nascosti dell’animo umano.
Cercherò di entrare nel merito con circospezione, in punta di piedi, con la riverenza che si deve quando si entra nel tempio sacro del Pensiero, filtrato attraverso le pagine di un libro.
Titolo e circostanza.
Sette paia di scarpe è un lavoro affascinante, che avvince e tiene desta l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine, nell’ansia di conoscere ciò che accadrà dopo, quando passerai l’indice a sfogliare la pagina successiva. E frattanto ti attardi a gustare le piacevoli sensazioni suscitate dalla pagina che hai davanti, o torni addirittura indietro, a rituffarti nel caleidoscopio d’immagini che l’autrice ha fatto scorrere, attualizzate, davanti a te.
Sette paia di scarpe è un romanzo da leggere sino all’ultimo rigo, fin nella postfazione e persino nei ringraziamenti, perché ogni frase, ogni parola e ogni sillaba contribuisce a definire il quadro un po’ fantastico e un po’ reale che Eliana dipinge, con la magia che è propria del tocco femminile; dove luoghi, personaggi, situazioni, emozioni, sensazioni, scorrono con la nitidezza di un film a tre dimensioni e ad alta definizione.
Abbiamo il piacere di ospitare, questa sera, durante questo storico evento che ha unito, in gemellaggio, il Centro Sociale Anziani di Cetraro e Rai senior, una studiosa nostra conterranea, che è nata e vive a Serra San Bruno, a due passi da noi, da dove collabora con l’Università calabrese e scrive per i più importanti settori della stampa nazionale.
Il suo lavoro di archeologa, l’ha portata a esplorare, oltre che in Israele e in Egitto, in zone sconosciute della lontana Siria, oggi teatro di atrocità, dove ha conosciuto usi e costumi che, per molti versi, essa assimila a certe pratiche del Mediterraneo e persino del nostro meridione.
Sette paia di scarpe, è il titolo che Eliana ha preso in prestito da un’antica fiaba cui ha attinto anche il poeta Giosuè Carducci in “Davanti San Guido”. Ricorderete tutti la bella strofa che recita: “Sette paia di scarpe ho consumate/ di tutto ferro per te ritrovare:/sette verghe di ferro ho logorate/ per appoggiarmi nel fatale andare…”
Direi che anche ciascuno di noi può riconoscere, nello stesso titolo, il proprio andare della nostra esistenza, con passo alterno, scarpe chiodate e talora anche senza scarpe, verso lidi lontani, dov’è la conoscenza del Vero che tutti inseguiamo, nel mistero affascinante e spietato della vita e della morte.
La trama.
Sette paia di scarpe, prende avvio da uno degli episodi di guerra che scandiscono la turbolenza del nostro tempo sull’intero pianeta ed evoca tristemente l’esodo tragico delle popolazioni che lasciano in fondo al Tirreno innocenze di bimbi e speranze, nel tentativo di raggiungere un fazzoletto di terra su cui esistere e sfamarsi, al sicuro dalla violenza degli uomini e dal fragore delle armi.
Il romanzo, ambientato in un’area di lingua araba, è costellato di frequenti espressioni, esclamazioni e nomi di quella lingua e questo, all’inizio, mi ha un po’ spaventato; vi assicuro, però, che presto sono tornato a mio agio avendole un po’ assimilate e, per il resto interpretate, deducendole di volta in volta, dal contesto letterario. Confesso anzi, che ho finito per familiarizzare e ho anche appreso un po’ di arabo…
Ho imparato, ad esempio che “Alham- dulillah” significa lode ad Allah, “salat al-maghrib” preghiera del tramonto e “layla sa’ida” buonanotte.
Lo scenario evolve da Beirut nel 2006, dove vive Imad, vedovo, con i suoi tre figli: Aidha, la più grande che fa da mammina, Nashat e Tahir i fratelli minori, al tempo in cui sta per scatenarsi l’offensiva israeliana contro gli hezbollah libanesi. Imad, il padre, deve assolutamente rimanere sul posto ma per mettere in salvo i suoi figli li manda in un villaggio della Siria, dove la defunta moglie Asiya, un tempo tra le più belle ragazze di quel luogo, era nata e che ora costituisce un enigma vivente per i figli che non conoscono le sua radici.
I tre sono accompagnati all’aereo che li porterà ad Aleppo e da lì continueranno il loro viaggio verso Umm Ar-rabiah, nel profondo nord est della Siria, dove sono accolti dai nonni materni, dagli zii e dai cugini. Il villaggio si trova alle falde del Tell, la collina misteriosa dove gli archeologi scavano, sin dal 1983, per ritrovare i tesori di una civiltà sepolta, insieme ai suoi misteri ancestrali, testimoniati da un antico cimitero situato ai suoi piedi.
L’ambiente.
In quel posto tutta la vicenda si sviluppa, si snoda e si conclude, in un clima rigorosamente patriarcale che diventa matriarcale quando il patriarca non c’è più. La religione che vi domina è, naturalmente, quella islamica, dove si sente la presenza dell’Imam e del muezzin che dall’alto del minareto chiama a raccolta, cinque volte al giorno, i fedeli per pregare Allah Misericordioso.
Una Siria dove, come dice l’autrice, le tensioni si tagliano col coltello, ma dove le varie comunità riescono a mantenere i contorni pacifici della reciproca convivenza. Dove, per non frazionare le proprietà, le unioni avvengono fra cugini, dando luogo a figli storpi, destinati a una vita di sofferenza. Dove il rapporto di parentela ha un limite: dove il figlio di tuo figlio è tuo figlio, ma il figlio di tua figlia è un estraneo.
Dove si dorme all’aperto, su baldacchini che devono molto somigliare a certi pagliai che i nostri contadini costruiscono per dormire sul posto di lavoro. Un villaggio dove ruoli e distanze tra uomini e donne sono rigorosamente definiti. Dove la protagonista Aidha, tra mille ostacoli e difficoltà, si dedica a raccogliere sempre nuovi tasselli per ricostruire un puzzle che le interessa e la tormenta. Dove essa vuole scandagliare nei trascorsi della mamma che da quel posto è fuggita e ricucire, come dice la stessa scrittrice, “l’arazzo sfilacciato della sua famiglia”. Un posto dove la sepoltura avviene rigorosamente su di un fianco, con la testa rivolta alla Mecca. Dove il lutto dura quattro mesi e dieci giorni.
Le analogie.
Nessuna meraviglia, come giustamente Eliana osserva nella sua bella postfazione, per le analogie che si riscontrano negli usi e costumi del nostro Meridione che rivelano l’appartenenza a un’unica grande cultura mediterranea che è parte di lei e di noi. “Un sud primordiale e attualissimo, -essa scrive con parole ispirate- ospitale e integralista, speziato e spietato, religioso e superstizioso, raffinato e sgargiante, opulento e affamato.”
Nessuna meraviglia, se consideriamo che tutto il mondo è paese e certe situazioni evocano alla nostra mente, cerimoniali non estranei alla nostra stessa cultura. Come il lutto che in quel villaggio dura sei mesi e dieci giorni, assimilabile a quello che noi cetraresi chiamiamo “ ’u luttu strittu” che le nostre nonne usavano testimoniare col nero dell’abito portato per anni, sino all’usura, e le imposte di casa serrate per settimane.
Come “u cuonzulu”, che ancora a Cetraro si porta, in certi strati della popolazione, rispettosa delle buone tradizioni, ai parenti dell’amico defunto. E’ un rito che troviamo attuale in quel villaggio siriano, quando viene servito con piatti fumanti e primizie dell’orto, allorchè muore il vecchio Abu Taleb, alla moglie Um Taleb e ai suoi familiari.
E similmente accade, durante le nostre cerimonie funerarie, che crocchie di partecipanti si abbandonino, confessiamolo, a sommessi pettegolezzi che nulla hanno a che vedere col povero defunto.
Anche Um Taleb, la matriarca siriana è assimilabile, lasciatemi passare un riferimento personale, alla figura di “Mamma Bice”, vedova con ben otto figli da allevare e sfamare, di cui ho narrato in questi giorni sulle colonne di Cetraro in Rete, e che molti di voi hanno avuto la bontà di leggere sul quel sito.
In quel villaggio troviamo persino la “lisciva”, “ ‘a lissia” che persone di giovinezza avanzata come me, ricorderanno come il bucato di cenere, che i nostri genitori usavano fare o commissionare, in difetto dei detersivi moderni.
Anche il burqa, con il quale le donne siriane usano nascondere capelli e parte del volto, evoca il vecchio fazzoletto delle nonne che ne indossavano uno simile, quando, coprendone il viso, lasciavano liberi solamente gli occhi, giusto per non inciampare, e recavano, a notte, nei vicoli del paese o, da una casolare all’altro, un piatto caldo ai poveri del vicinato.
Un nugolo di personaggi su cui si eleva finalmente la figura di Karima Um Bassan, unica amica della defunta madre di Aiyda, depositaria dei segreti che la protagonista si appresta a sciogliere per giungere finalmente all’ambita verità.
Karima, personaggio che Aiyda assimila a Fatima, la sua amica fedele, lasciata in Libano, dove la protagonista e i suoi fratelli, infine torneranno vicino al padre, alla fine del conflitto israelo- libanese.
Questa, in estrema sintesi, è SETTE PAIA DI SCARPE: la narrazione integrale, la soluzione dell’enigma e i dettagli v’invito a gustarli leggendo l’elegante volume in edizione cartonata, edito dalla RAI.
***