Riportiamo, a seguire, tre significativi interventi pubblicati nei giorni scorsi sul blog del Centro Sociale Anziani di Cetraro paese e relativi ai giorni delle memoria e al campo di concentramento di Ferramonti, due dei quali a firma della professoressa Rosa Randazzo.
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Il filo della cultura per non perdere la memoria
di Rosa Randazzo
Significativo e pregnante il tema proposto da Federanziani Calabria in collaborazione con Senior Italia che con il progetto Il filo della cultura per non perdere la memoria ha voluto tessere un doppio legame.
Un filo che ci lega al nostro passato, a quello scrigno che contiene la cultura materiale e simbolica di un popolo, di cui è segno la sciarpa della pace, confezionata dai nonni della Calabria e consegnata al sindaco di Tarsia.
Un filo che ha legato tante donne dei centri sociali anziani e filo che ci lega alle donne dei centri sociali di altre regioni. Legami che producono comunione quindi pace.
Il nostro patrimonio culturale va salvaguardato perché in un mondo sempre più globalizzato, che tende ad annullare le diverse specificità, è come una coltre avvolgente, familiare che riscalda ma non soffoca.Non corazza, entro cui rifugiarsi per sfuggire alla relazione con l’altro, col diverso, spazio circoscritto da difendere a tutti i costi ma base su cui costruire una nuova appartenenza in una società eterogenea e multiculturale qual è quella che si va profilando anche nei nostri piccoli centri.
Un filo che ci lega ad un evento tragico della vita dell’umanità di cui il campo di concentramento di Ferramonti e soprattutto il lager di Auschwitz sono luoghi cruciali della memoria novecentesca.
Auschwitz poi ha rappresentato una rivoluzione nel modo del ricordare, tanto da farci recuperare il senso etimologico del termine ri- cordare. Ricordare è riportare al cuore, è memoria e memoria è rendere presente il passato, è sentire sulla propria pelle il dolore, lo straniamento, la perdita della speranza, la demolizione dell’uomo. Difficile definire i sentimenti che hanno agitato il cuore di milioni di Ebrei, omosessuali, slavi, disabili, donne, uomini, bambini nei campi di sterminio. Ricordare quindi per non scordare, cioè per non perdere dal cuore.
Sono trascorsi più di 70 anni, l’arco di una vita, per cui la generazione dei testimoni va esaurendosi. Poiché la memoria è un dovere umano reso assoluto e imperativo, dopo gli orrori dello sterminio,sorge un interrogativo.
Chi terrà desta nelle giovani generazioni la memoria di eventi così atroci?
Ed ecco che interviene il filo della cultura così come dice il titolo del progetto.
Quale cultura della memoria? La cultura che utilizza nuovi sostegni, nuove forme e nuovi linguaggi che fanno leva sull’immaginazione. Quindi i documenti storici, i musei, ciò che i giovani apprendono nei libri di Storia viene arricchito dai messaggi veicolati dai nuovi mezzi di comunicazione(film, opere teatrali, fiction…).
Il ricordare non deve divenire , però, un rito, celebrato il quale, tutto ritorna come prima. No, non è questo il senso del ricordo.
La memoria va coltivata quotidianamente, nelle scuole con percorsi didattici attivi tutto l’anno, costruiti insieme ai soggetti presenti sul territorio, a partire dai musei e dalle istituzioni culturali, va coltivata nella vita di tutti i giorni.
Dice Levi in Se questo è un uomo, stando in casa, andando per via/ coricandovi, alzandovi.
La memoria è scomoda. Comporta una assunzione di responsabilità.
Levi, sopravvissuto ai lager nazisti, nel suo libro I sommersi e i salvati mette in guardia dal fare della memoria un semplice ricordo. Egli,chimico di professione, diviene scrittore per necessità. La necessità e l’urgenza di testimoniare perché non accada più ciò che è accaduto.
Se è accaduto, afferma Levi, può accadere ancora. Si può ripeter in forme diverse.
Certamente sarà difficile che si verifichino simultaneamente tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma ci sono segni precursori che bisogna imparare a cogliere: la violenza,la paura del diverso, dello straniero, il razzismo.
Quando sorge un nuovo istrione, un incantatore , un trascinatore di folle, che teorizza questi fattori, li legalizza e dichiara la violenza necessaria, tutto quel che è accaduto si può ripetere.
Noi sappiamo che è già accaduto in Argentina, nell’ex Iugoslavia, in Burundi, in Ruanda.
Allora ecco il ruolo della cultura, degli intellettuali. La cultura deve essere la sentinella che nel buio della notte discerne i segnali di una follia collettiva e accende la fiaccola dello spirito critico, dello studio, della riflessione, del confronto razionale. Certamente il letterato deve basare il suo agire nella società sull’etica dell’accoglienza, dell’inclusione, su valori universali come la pace, la non violenza , sul valore della diversità.
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Fausto Gallo testimone a I giorni della memoria a Ferramonti
di Rosa Randazzo
Un evento culturale, particolarmente significativo ed emozionante, si è tenuto nel campo di concentramento di Ferramonti nell’ambito de I giorni della memoria, dedicati alle tragiche vicende che hanno visto il genocidio di milioni di Ebrei, omosessuali, slavi, disabili.
In un contesto caratterizzato dalla partecipazione di associazioni socio-culturali, amministratori comunali e di rappresentanti di tutte le associazioni calabresi di anziani, si sono alternati testimonianze, interventi e riflessioni sul senso della memoria e sulla necessità di non far cadere l’oblio su questa pagina nera della storia.
Numerosi i soggetti istituzionali che hanno espresso compiacimento e pieno sostegno alla manifestazione.
Tema dell’evento e titolo del progetto messo in atto da Federanziani Calabria
Sul filo della cultura per non perdere la memoria.
La presidente regionale Brunella Stancato ha consegnato nell’occasione a Roberto Ameruso, sindaco di Tarsia, la sciarpa della pace confezionata dai nonni della Calabria, simbolo di comunione fraterna e messaggio di pace per le giovani generazioni, ha detto la presidente.
La sciarpa della pace, composta da centinaia mattonelle create da tante mani operose, ha detto il sindaco, può ben essere il simbolo di Ferramonti, luogo d’incontro di tanti volti , di uomini e di donne di diverse religioni, di varia cultura uniti da un tragico destino ma che hanno trovato a Ferramonti l’opportunità di una convivenza pacifica, grazie al grande senso di umanità di chi ha gestito il campo. Umanità che è di tutte le popolazioni del Sud, ha continuato il sindaco, e che si manifesta anche oggi nell’accoglienza di tanti fratelli che in barconi di fortuna arrivano sulle nostre coste alla ricerca di una vita migliore, lontani dalla guerra, dalla povertà che genera fame e da una vita vissuta nell’insicurezza.
Significative le testimonianze rese da Fausto Gallo, presidente del Centro Sociale Anziani di Cetraro e di Francesca Rennis legata al centro sociale di Guardia e Acquappesa.
Gallo ha condiviso con il numeroso pubblico presente momenti intimi della vita della sua famiglia che ha visto tre fratelli diversamente impegnati nell’esercito e nella marina nel corso della seconda guerra mondiale. Uno, Italino, deportato in Germania. Ha raccontato la paure per i bombardamenti, il timore della perdita, le sofferenze patite, la gioia del ritorno a casa dei fratelli.
Rennis ha ricordato la figura del padre che ha preferito rimanere in Germania ai lavori forzati per ben due anni, pur di non cedere al nazifascismo e divenire soldato della Repubblica di Salò. Prima forma di resistenza.
Queste manifestazioni sono importanti, ha detto la Rennis, soprattutto nel mondo di oggi, in cui le giovani generazioni soffrono di analfabetismo emotivo ed hanno perduto la percezione della realtà, immerse come sono in un modo virtuale e in una comunicazione con l’altro mediata dalle nuove tecnologie.
Pergamene sono state consegnate ai presidenti delle associazioni di anziani presenti alla manifestazione. A tutti una cartolina con un messaggio dei nonni alle giovani generazioni.
Tanti gli ospiti della manifestazione a cui la presidente Stancato ha consegnato le mattonelle della pace. Una mattonella è stata inviata al Santo Padre, papa Francesco, cui la presidente ha chiesto una udienza per i nonni d’Italia. Un’altra al sindaco e ai cittadini di Tarsia che hanno ospitato la manifestazione.
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Intervento di Fausto Gallo a Tarsia
Sono nato nel 1936 e sono l’ultimo di otto figli, perciò durante la mia infanzia dei miei fratelli che partirono per la guerra avevo una vaga conoscenza, avvenuta tramite le loro fotografie in divisa o qualche breve ritorno a casa per una licenza.
Il primo, Francesco, nato nel 1915, arruolatosi nella questura (oggi Polizia di Stato) dopo il corso a Firenze fu mandato ad Agrigento. Il secondo, Italino, del 1918, militare di Marina, fu mandato in Grecia e in seguito venne deportato in Germania. Luciano, classe 1920, militare di terra, fu imbarcato a Napoli per l’Africa. Con il passare del tempo e l’imperversare della guerra, perdemmo i contatti con i nostri congiunti.
Nel 1943 incominciano i primi bombardamenti anglo-americani sulle nostre coste. Fu data l’ordinanza di lasciare il paese e restare nelle campagne. Cetraro si svuotò perché vennero trasferiti anche gli uffici comunali, postali e bancari. Restarono solo i carabinieri a pattugliare il paese. Intanto arrivavano notizie di bombardamenti su Amantea, Paola e Scalea.
La notte del 16 agosto c’era un cielo stellato ed una splendida luna. Non facemmo in tempo ad addormentarci che si scatenò l’inferno: bombe dal cielo, cannonate dal mare. Tra il fuggifuggi generale corremmo a ripararci, per modo di dire, sotto gli alberi. Solo dopo aver sganciato una quantità enorme di bombe, gli aerei si allontanarono e l’inferno cessò. Al mattino alcuni si recarono in paese pensando di trovare solo macerie, ma con enorme con sorpresa non fu così; solo il convento delle suore Battistine venne colpito ma riportò pochi danni.
Nei giorni successivi seguirono altri raid, ma fortunatamente le bombe finivano in mare o sulla spiaggia, inesplose.
Solo un ponte sulla linea ferroviaria, nei pressi della sottostazione di Cetraro, fu danneggiato, costringendo in quel tratto i pochi treni locali che viaggiavano ad andare a passo d’uomo: era il cosiddetto ponte degli zingari. Per chi conosce Cetraro, è il ponte di fronte il ristorante il Cubo, con innesto sulla superstrada. A quei tempi invece era ad arco e vi scorreva sotto un fiumiciattolo. Si trattava dell’ultimo tratto della fognatura a cielo aperto che si gettava a mare nelle vicinanze. Solitamente vi si accampavano gli zingari, che barattavano attrezzi di ferro battuto e altri oggetti e poi andavano via. Da qui il nome di “Ponte degli Zingari”.
Con lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, ad Anzio e la caduta di Montecassino arrivò l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Fu la fine dello sfollamento. Col passare dei giorni sulla SS18 passavano colonne di automezzi americani che andavano verso il nord. Alcuni si fermarono a Cetraro per pochi giorni. Si incominciava a vedere la luce dopo il buio. Intanto per le strade del paese si vedevano forestieri, venivano chiamati gli sbandati: erano siciliani che tornavano al Sud o napoletani che risalivano verso il nord. Bussavano ai portoni cercando qualcosa da mangiare. Mia madre, con tre figli in guerra di cui non si avevano notizie, cercava per quel poco che poteva, di aiutare tutti, sperando che qualcuno di loro le desse notizie dei figli. Fortunatamente incontrò un gruppetto diretto ad Agrigento, raccontò subito del figlio Francesco pregando di portare nostre notizie e una lettera. Dopo un po’ di tempo arrivò la risposta di Francesco: stava bene e sperava al più presto, treni permettendo, di tornare per una breve licenza. Nel frattempo avemmo notizie anche di Luciano, prigioniero degli americani in Africa: raccontava che stava bene e viveva nell’agiatezza.
Un giorno mio padre, sul marciapiede della stazione di Paola in attesa del treno per Cetraro, notò un bel militare americano nella sua impeccabile divisa di color kaki, con lo stemma dello stivale sulla manica sinistra. Vide un paesano che salutava il militare e al tempo stesso faceva segno verso di lui, che non capiva.
A quel punto il paesano disse al militare:” Non vedi che quello è tuo padre?” Il militare si avvicinò a mio padre dicendo:” papà sono io Luciano tuo figlio”. Non si erano riconosciuti! Seguirono abbracci, pianti e grida di gioia.
Dopo la caduta di Berlino avvenuta il 2 maggio 1945 e la liberazione della Germania e dal Nazismo di Hitler, con i suoi folli orrori, i prigionieri presero con mille difficoltà la via del rimpatrio. Ci furono i primi arrivi in paese, i treni che venivano dal Nord non fermavano alla stazione per cui la notte al famoso ponte degli zingari, dove i treni erano costretti a rallentare, si radunarono molte persone, soprattutto mamme con la speranza di rivedere i figli o di averne notizie mostrando le fotografie. Fra le mamme c’era anche la mia, accompagnata da Graziella, un’amica di famiglia; anche lei aspettava suo figlio che sapeva essere a Napoli. Sfiduciata e quasi senza speranza, mia madre una sera decise di non andare al ponte.
In piena notte sentimmo bussare al portone: era Graziella che urlava “Marietta Italino è tornato” e alle sue urla si unirono quelle di mio fratello “mamma, mamma sono tornato!”.
Fra pianti, urla e abbracci si svegliò tutto il vicinato e la casa si riempì di gente. Per i giorni a seguire ci fu un via vai di parenti, amici, conoscenti e mamme che venivano a chiedere notizie dei figli che non erano ancora tornati.
Purtroppo alcuni non tornarono.
Mia madre lo ripeteva sempre che era stata fortunata: tre figli in guerra e tutti e tre tornati a casa.