Quando la vecchia colona doveva dire qualcosa d’importante alla padrona, le s’appressava sorniona e, con la mano mezza nell’aria, esordiva: “Avuzulìa!”.
E seguiva un bisbiglio di sentenze e ammonimenti che la sua antica saggezza contadina ispirava.
Come antico, anzi antichissimo, era il suo monito iniziale.
‘Avazulìa’ vorrebbe dire, infatti, alla lettera: ‘Alza’ o, meglio ancora, ‘Dàtti ad alzare’. Ma, come s’evince, l’imperativo categorico manca del complemento che il tempo e, più ancora, la perentorietà dell’espressione hanno eliso.
Cosa si pretendeva, infatti, che si alzasse? Quel che serve a meglio intendere: ovverosia le orecchie.
E, per quanto possa oggi sembrare sorprendente, la nostra vecchia colona faceva uso, in quel caso, di un’illustre espressione latina: di quelle che fanno bella mostra di sé nei classici della nostra letteratura. Parlava, insomma, pressappoco la stessa lingua di Terenzio; il quale nell’Andria, atto V scena IV, se ne esce, a un tratto, colla precisa espressione: “Arrige aures, Pamphile!” (“Drizza le orecchie, Pànfilo!”). Usava lo stesso modulo espressivo di Properzio; che, nella VI Elegia del Libro III, confida alla sua Cinzia: “Berrò le tue parole a orecchie tese”. Seguiva l’illustre esempio di Virgilio; che, nel Libro II dell’Eneide, fa dire ad un Enea assai sconvolto: “E porgo per udir gli orecchi attenti”.
La vecchia cetrarese scuola non ne aveva; e non sapeva, neppure alla lontana, chi fossero Terenzio, Properzio o Virgilio. Ma usava, inconsapevolmente, la loro stessa espressione perché gliene aveva fatto dono gratuito la tradizione: quel patrimonio di idee, sentimenti e modi di dire, affidato unicamente alle ali della trasmissione orale. E che spesso faceva in modo che formidabili espressioni dell’antichità si trasferissero di sana pianta, e belle fresche, dai codici dei classici sulla bocca tremolante d’una vecchia colona di campagna.