A zonzo tra passato e presente, tra Storia e costume

Presentazione del volume di Ciro Cosenza “Dai salotti della Riviera alcune pagine di Storia”.

Prima di cominciare voglio ringraziare il prof. Ciro Cosenza per il suo lavoro di studio e di ricerca effettuato nel corso di tutta la sua vita, i cui risultati ha condiviso con varie generazioni di studiosi e di semplici lettori, spinto dall’urgenza della condivisione che è propria del docente e dello studioso che desidera ardentemente che il frutto delle sue fatiche sia fecondo…

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Con questo suo ultimo volume Dai salotti della Riviera alcune pagine di Storia lo vediamo gironzolare tra le bancarelle per collezionisti, scrutare nei cassetti di vecchie scrivanie, ficcarsi in vecchie soffitte, frugare nella memoria e scrivere…

Quando ho cominciato a leggere il testo mi è venuto in mente un libro di I. Calvino “Il castello dei destini incrociati”. Calvino ha adoperato i tarocchi come una macchina narrativa. L’idea gli era stata data dal semiologo Paolo Fabbri nel corso di un seminario internazionale sulle strutture del racconto nel luglio 1968. L’autore disponeva i tarocchi in modo che si presentassero come scene successive di un racconto pittografico. Quando le carte, affiancate a caso, gli davano una storia in cui riconosceva un senso, si metteva a scriverla.

Il procedimento di Ciro Cosenza nel redigere questo volume mi è parso analogo. Quando per caso, o perché li ha ricercati, trova segni della Storia, documenti, narra una pagina di storia nazionale e la intreccia con la storia locale. O meglio narra una pagina di storia locale strettamente intrecciata alla storia nazionale.

Quella storia che non troviamo nei manuali, quella che dice del dolore, della passione, della paura, dei gesti eroici di uomini e donne di casa nostra,della vita dei piccoli nei momenti significativi della storia. L’autore segue il percorso della memoria, va a zonzo tra passato e presente, tra ieri, oggi e domani. Tra Storia e costume. Chiaramente Calvino racconta attraverso figure variamente interpretabili, Cosenza invece basa il suo narrato su documenti univocamente interpretabili.

Il volume è diviso in cinque sezioni. Va dal Risorgimento all’Italia divenuta repubblicana fino al referendum sul divorzio.
Tutte le sezioni sono titolate. Le prime due hanno un titolo che pone una domanda, stimola alla riflessione.
Il professore ci spiegherà poi il perché dell’uso dell’imperfetto nel titolo della prima parte “Ricordi di un’epoca che chiamavamo Risorgimento”. Perché l’uso dell’imperfetto? Dà un valore epico al racconto di un’epoca gloriosa della nostra storia o nasconde un pizzico di rammarico? Rammarico per il fatto che nelle scuole non si studia più in maniera approfondita questa importante porzione della nostra storia o, come dirà nel prosieguo del testo per quei discutibili processi revisionisti del nostro Risorgimento? Leggendo la riflessione che chiude la prima sezione mi sembra di aver risolto il dilemma. Si tratta di rammarico. Infatti allorquando l’autore si trova di fronte all’albero su cui si era appoggiato Garibaldi, quando fu ferito a Gambarie,dice commosso: “I luoghi parlano da soli e almeno loro raccontano la Storia”.

E’ con commozione che ho letto episodi “inediti” di storia locale.
L’input al racconto, sempre coinvolgente, lo dà un documento scovato per caso quando era ancora un ragazzo. Si tratta di uno scritto inedito e autografo di Giuseppe Mazzini, che si trova in casa di Giuseppe Ricucci. Un memoranda a stampa datato Londra 17 dicembre 1858. Tutto da interpretare. Ce ne parlerà l’autore stesso.
A Longobardi in casa di don Ciccio Miceli, ben esposta in una teca, il papà nota una giubba rossa. E’ la giubba del garibaldino lo zio di don Ciccio, Luigi Miceli, uno dei Mille. Ne ha parlato in casa e al piccolo Ciro il racconto rimane impresso.

E’ l’input per riportare l’intervento del Miceli alla Camera in cui denuncia gli eccessi inescusabili della repressione… che rendevano il brigantaggio perenne e sempre più feroce. Poi con la memoria l’autore va al Gianicolo dove passa in rassegna le erme dei personaggi che hanno lottato per la Repubblica romana.
In un salotto di Diamante ritrova la giubba rossa di Arcangelo Caselli, con i gradi di colore verde ai polsi. Questi da ufficiale, partecipò alla battaglia sul Volturno e, studente a Napoli, al passaggio della carrozza di Ferdinando II si parò in mezzo alla strada e gridò : Abbasso i Borboni! Viva Vittorio Emanuele re d’Italia!
Di lì a qualche giorno a Diamante, mentre era in corso una seduta del Decurionato, piombò nella sala e, afferrato il busto di Ferdinando II, lo scagliò dal balcone gridando: Viva l’Italia! Viva Garibaldi!

Mentre parla del Caselli dà circostanziate informazioni sulla fondazione di Diamante, sulla storia della famiglia Caselli, sull’economia in Calabria in età spagnola.
Ricorda Giuseppe Mistorni nato a belvedere nel 1813, era accanto a don Luigi Rubino, prete stravagante e temerario, che si apprestò ad abbattere gli emblemi della monarchia borbonica. Nel corso dei moti del ’48 partecipò al rapimento e al successivo sequestro degli impiegati del telegrafo di Paola per interrompere le comunicazioni con Roma. Abbatté la statua di Ferdinando II che troneggiava nella piazza di Buonvicino.
Quando i moti furono repressi subì un durissimo processo con questa imputazione: attentato contro la sicurezza interna dello Stato, organizzazione di banda armata e e oltraggio nei confronti di S.E. Ferdinando di Borbone
Pagò il suo impegno di patriota con una condanna a morte, commutata poi in trenta anni di carcere duro. Liberato dall’armata garibaldina nel ’60, non tornò dalla sua famiglia, ma partecipò alla battaglia sul Volturno. Solo dopo ritornò a casa.

Gli episodi si susseguono attaccati l’uno all’altro come le tessere nel gioco del Domino.
Allora apprendiamo che Agesilao Milano, che attentò alla vita del “re Bomba”, era calabrese di San Demetrio Corone e che frequentava il Collegio Santo Adriano in cui si formò il nerbo del ribellismo calabrese.
Queste storie ci commuovono e ci rendono orgogliosi delle nostre radici. “L’orgoglio per le proprie radici è il primo passo verso il riscatto ed il progresso”(Gabriele Petrone). Inoltre contribuiscono non poco a sfatare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, lo stereotipo che volle porre la Calabria ai margini della Storia.

Racconto per richiami, abbiamo detto. Infatti, nonostante ci sia una sezione apposita che parla dell’Italia postunitaria, a proposito del dono fattogli da una collega, otto numeri de L’amico della libertà pubblicato dal 10 ottobre del 1860 al 19 dicembre dello stesso anno, parla del brigantaggio, delle sue origine e caratteristiche e racconta un episodio di “brigantaggio comune”, direi ,che si consumò a Cetraro nel palazzo Ricucci.

Il titolo della seconda sezione Accadde nell’Italia( o nell’Italietta?) postunitaria impone una riflessione sugli eventi che seguirono la grande guerra. Riflessioni e puntualizzazioni che l’autore non risparmia col suo linguaggio simpaticamente ironico.
Una frase topica questa che ci introduce nell’Italia degli anni Venti, nella Riviera dei cedri di quegli anni.
Allora leggiamo della disputa elettorale a Diamante del novembre del 1923 tra fascisti e nazionalisti , e, facendo un salto di 30 anni, della disputa elettorale a Cetraro negli anni Cinquanta, tra democristiani, social comunisti e aderenti al partito di Achille Lauro.
L’occasione? Due vessilli. Uno stendardo di raso azzurro trovato a Diamante e una bandiera tricolore, con al centro lo stemma dei Savoia che si trovava nel salotto di casa Occhiuzzi a Cetraro.

Il racconto è interrotto da pagine di costume che rendono più completo il quadro storico e ci restituiscono il senso della storia fatta non solo da guerre e battaglie politiche ma dalle canzoni, dal modo di scrivere, di sognare, parlare e credere di persone comuni…
Una di queste pagine risale al 29 luglio 1913. E’ una “preziosissima testimonianza” del Liberty. Un grosso quaderno di ricordi della zia Concettina Cosenza. Un quaderno su cui amici, parenti, professori e semplici conoscenze vergarono, di proprio pugno pensieri e ricordi. Ricordi che l’accompagnarono per tutta la sua vita.
Leggo un pensiero del 3 giugno 1913 di Giuseppina Levato, una compagna di collegio: La tua anima non sia mai intristita dal gelido soffio dell’inganno; posa ella incontrare sul su cammino l’affetto caldo e sincero di un’amica gentile, l’amicizia calda, sincera, imperitura.

Ce ne sono tanti altri scritti dalle amiche del collegio, da conoscenti. Tutti utilizzano lo stesso linguaggio formale, solenne, ricercato, poetico talvolta. Certamente non si esprimevano così quando parlavano tra di loro. Evidentemente riconoscevano dignità al canale di comunicazione che utilizzavano, la carta, ed ai contenuti dei messaggi. Pensieri scritti per sfidare il tempo, perché rimanessero nel tempo a suggello di affetti amicali, parentali, fraterni.

Chiaramente questo documento molto significativo impone all’autore ed a noi che leggiamo, una riflessione sul modo di comunicare dei ragazzi di oggi.

Ancora adesso i ragazzi scrivono pensieri e messaggi nei loro diari di scuola, scrivono sms ed e mail… Utilizzano però, un linguaggio informale, rapido, veloce, cifrato, fatto di faccine per dire la gioia e il dolore, il sì e il no, di t. v. b., per dire ti voglio bene, eliminano vocali ed utilizzano abbreviazioni.

Oggi i pensieri non sono scritti per sfidare il tempo e le parole non hanno più la loro anima, che è lieve e pesante, poesia e spada, graffio sulla roccia e fatica sulla pergamena. Dice nonno Stregone protagonista del romanzo di Stefano Benni Pane e tempesta

Un altro stacco nel flusso del racconto storico è il capitoletto dedicato alla canzone degli anni Venti, Canzonette nella pace ritrovata. L’autore fa un excursus sui contenuti e sul senso che avevano per i reduci le canzonette di quegli anni: Vipera, Balocchi e profumi, Come pioveva … Canzonette che sono diventate parte integrante della nostra “memoria di italiani”. Le parole dei loro testi hanno influenzato la formazione del nostro gusto e hanno in qualche modo inciso sulle nostre stesse scelte linguistiche. (Tullio de Mauro)

E’ la canzone che in quegli anni esprime meglio i sentimenti, le paure, i sogni, la voglia di dimenticare. Dimenticare “di aver puntato il fucile e fatto fuoco, cito testualmente, e aver visto cadere non una sagoma, ma un altro essere umano. Allora si cantava No, le rose no…/ Non le voglio veder! Perché le rose rosse sui prati ricordano al reduce il sangue versato sui verdi altipiani da tanti ragazzi.
Le parole di questa canzone sono state scritte da Mario, autore de La canzone del Piave.
Solo negli anni Trenta, quando si allontana il ricordo del sangue versato nella grande guerra, si canta invece“ Portami tante rose….

Quello dell’autore è un narrato “a cascata”, per richiami, direi, ma sempre preciso, puntuale, circostanziato. Ogni documento, libro, oggetto citati sono descritti nei minimi particolari.
Così l’album della zia Concettina ha la dimensione di una grossa agenda, quasi un quadernone, di 54 pagine. Ha una copertina cartonata color verde scuro, con una fascia più chiara, quasi pisello, riservata al nome, che però manca. Sul primo foglio c’è invece dipinto, ad acquerello, un bouquet di margherite. Il disegno era firmato con un monogramma, formato da due C intrecciate.

A proposito del rapporto tra sport e Fascismo fa quasi una cronaca della partita in cui l’Italia ha vinto nel 1934 la coppa del modo. Racconta tutto il campionato: goal, allenatori, giocatori, magliette delle varie squadre, non solo di quella italiana.
Descrive minuziosamente l’attestato di benemerenza che veniva dato a chi consegnava oro per la patria dopo la guerra di Etiopia. Una sorta di pergamena di cm.26×21.Dal vertice del foglio partivano,ad arco, due fronde di quercia che si riunivano in basso attorno allo stemma di casa Savoia. Incorniciavano una stampa che mostrava le matrone romane che offrivano i loro monili agli edili, per sostenere le spese di guerra. Nel mezzo, con caratteri d’oro c’era scritto:

PER LA GUERRA REDENTRICE
Alfredo Cosenza
DONO’ ORO ALLA PATRIA

Interessantissimi i capitoletti dedicati alla descrizione dei quaderni in uso durante il Fascismo, alle cartoline datate 1914-1922 raccolte dalla madre in un album, ai fac-simile della campagna elettorale del 1948, al contesto in cui è nata la fortuna di Grand Hotel…
Sono tantissimi i documenti descritti in maniera così particolareggiata.

Alcune pagine raccontano momenti importanti della storia sono come un grande affresco .
16 agosto 1943. Arrivavano dalla marina il fragore degli scoppi e il bagliore dei fuochi delle case che bruciavano. L’anfiteatro dei monti Santo Iorio, Piano Zanche Serre e Testa era letteralmente in fiamme…. in un silenzio attonito del cielo e di tutte le cose le fiamme dei razzi incandescenti svampavano… Tutto era chiaro, visibile, e distinto, gli alberi, i colli, le vie, i tetti, le facciate delle case…

In un angolo un bambino guarda attonito. Anche la Terra sembra partecipa del dolore dei luoghi. In quel momento infatti la Terra oscura la Luna che si trova in fase di piena. E’ in atto una eclissi. In un angolo del nostro affresco un ragazzo cerca di catturarne le fasi in un secchio d’acqua ed una vecchia annuncia tristi presagi.
Altro che l’asettico linguaggio dei manuali scolastici di Storia! Sono certa che con un libro così i nostri ragazzi comincerebbero ad amare la Storia.

Come non andare col pensiero a La fuga dall’Etna di Renato Guttuso, oggetto dell’ultimo Caffè letterario del Centro anziani!
Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono,precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi. Vengono avanti con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli.
In quella notte del ’43, c’era soltanto il fuoco devastatore.
Segno di speranza il ragazzo che cerca di catturare la luna?

Il narrato declina in una prosa scorrevole, che ti tiene incollato alla pagina, l’amore per la sua terra, l’amore per la storia dell’autore. Egli fissa sulla carta il suo mondo affettivo e sociale, perché non scorra via e sparisca. Perché solo la memoria, solo la scrittura lo può recuperare, solo il racconto, quella filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Vivono sotto i nostri occhi eventi di cui sono protagonisti personaggi della sua famiglia e personaggi più o meno famosi che completano il quadro della nostra storia locale: Vincenzo Bianchi di Belmonte, Luigi Talamo, Eleonora Schettino, don Eugenio Occhiuzzi, cui recentemente la Pro loco ha dedicato una pubblicazione e intestato il largo su cui si affaccia la sede, Bernardino Alimena, la signora Clarissa, il brigadiere Benvenuto…

Io mi fermo qui. Vi assicuro che è stato difficile scegliere tra le tantissime pagine di storia, costume, aneddoti, eventi storici, pagine di costume. Spero di aver suscitato in voi la voglia di leggerlo.