A proposito dei “calzoni corti”…

*Riceviamo e pubblichiamo uno scritto di Vincenzo Amorosi che lo stesso autore definisce “un’erudita analisi vergata sull’onda d’indelebili immagini giovanili”. Uno scritto che segue le puntualizzazioni del prof. Mario Braile pubblicate da questo blog. Buona lettura* (ndr).

Benedetto quel tempo, caro professore, benedette le immancabili sbucciature sulle ginocchia a causa delle cadute e dei scivoloni nel campo di calcio a ridosso delle mura del “casermone e muraglione di carcere.”

Felici giocavamo in quel campo dietro ad un pallone e felici ancora sguazzavamo nelle pozzanghere dopo una pioggia torrenziale di primavera che solo il cielo di Cetraro sapeva regalare.

La gelateria di Don Saverio al limite del campo, al piano terra del vecchio palazzo ex Marini ed ex scuola professionale, era il nostro punto di rinfresco in estate. Una sana bevanda di chinotto Negri era il premio di un’accanita partita al “calcio Balilla” (oggi biliardino ) e la Coca Cola non aveva ancora rapito demenzialmente il mercato e le nostre  gole arse.

Sì le Palazzine Ferroviarie erano le ultime costruzioni sulla linea ubicativa del Casermone Lucibello, dopo di che spazio a dismisura fin tanto da vedere l’immensa spiaggia e la riva del mare. Mio padre dal terzo piano delle palazzine, in cui abitavo, con un fazzoletto bianco mi chiamava per il pranzo; io dalla riva tornavo felice seguendo lucertole e percorrendo sentieri erbosi e canneti…

La scarpata ferroviaria era un baluardo insormontabile, fiorita in primavera, arsa in estate. Da qui il mare di là il fronte della “rupa” sulla quale si ergeva Cetraro, “a’ zilica”era la strada percorribile più breve che s’inerpicava tramite spianate a zig zag ed erti scalini. Una macchia mediterranea fatti di orti, di culture nostrane si disperdeva tra i tralicci dell’alta tensione che alimentava la vicina sottostazione ferroviaria di trasformazione. Era tutto un fiorire di verde di luce, di colori e di odori.

Benedetti, dicevo, quei calzoni corti, poiché di lì a breve avrei rimpianto quello splendore, quella libertà, quella luce, quel mare. Trasferitomi a Napoli negli anni 50 con la famiglia incominciai a conoscere gli spazzi ristretti degli appartamenti, il buio degli androni dei palazzi, il grigiore dei vicoli . Incominciai a conoscere una città con i suoi misteri , i suoi problemi, la sua storia ,ne diventai parte di essa.

A tratti accarezzavo ed accarezzo ancora la mia gamba, dove il segno di una beccata d’oca capitolina del giardino di Lucibello aveva profanato i miei indimenticabili “ calzoni corti”…”