Sono parole di Amedeo Ricucci, giornalista RAI, rapito in Siria lo scorso aprile e tornato a casa sano dopo 11 giorni di prigionia. Lo abbiamo incontrato in occasione del Premio Giovanni Losardo
I giardini di Palazzo del Trono sono il luogo ideale per manifestazioni di questo tipo. L’ambiente è accogliente, fresco, e gli alberi che lo abbelliscono rendono il tutto molto informale e rilassante. Sono le 18 e 50 di sabato 7 giugno 2014 e siamo a Cetraro paese. È qui che si tiene la XII edizione del Premio Losardo. Cominciano ad arrivare i primi spettatori, che prendono posto dalla terza fila in poi. Già, perché le prime due sono riservate a chi deve ricevere il riconoscimento e agli ospiti che devono tenere un breve discorso durante la serata. Poi, arrivano il Presidente del Laboratorio, il professor Gaetano Bencivinni, il sindaco di Giuseppa Aieta, lo scrittore Lirio Abbate e tutti gli altri. Alle 19 e 30 circa, con mezz’oretta di ritardo, si comincia: parte la XII edizione del Premio Internazionale Giovanni Losardo, un riconoscimento importante, che quest’anno viene assegnato anche al giornalista RAI Amedeo Ricucci, per “aver raccontato le guerre in tutto il mondo” ma senza “mai dimenticare la sua Calabria”, anche quando il 3 aprile del 2013, in Siria, è stato sequestrato da una brigata di Jabhat al Nusra, per venire liberato, assieme ai suoi tre compagni, solo 11 giorni dopo. Ed è proprio a lui, protagonista di questa spiacevole vicenda, fortunatamente conclusasi nel migliore dei modi, che abbiamo rivolto alcune domande.
Parliamo del premio Losardo.
Cosa rappresenta per te?
Beh, per me è una doppia soddisfazione. Io ho partecipato alla creazione del Laboratorio. Le prime edizioni le ho presentate io e conoscevo bene Giovanni Losardo. Per me è un premio in famiglia. Non c’ero quando è stato ucciso, ero già all’università e non ho vissuto gli anni terribili di Cetraro in prima persona, ma ero lì col cuore. Quindi, ricevere un premio dal “mio” Laboratorio non può che riempirmi di gioia. Anche come cetrarese. Stasera mi sono chiesto: perché io ricevo un premio sulla legalità? Ma poi ho capito: è corretto. In fondo, raccontare la guerra è il mio mestiere, e la guerra è la sospensione della legalità, è una stazione in cui le regole saltano e in cui il più forte prevarica… insomma, è una situazione accumunabile acsocietà dove la criminalità è forte. E come in guerra, anche da noi, in una regione come la Calabria, intendo, è importante tenere alta la bandiera della legalità.
Parliamo del tuo sequestro?
Non amo parlarne molto. Ma non perché abbia subito un trauma o cosa simili. Non amo parlarne perché me lo chiedono in tanti e, soprattutto, perché rifiuto il concetto che il sequestro possa essere un merito per un giornalista. Io non è che divento bravo perché sono stato sequestrato. Anzi, se tu vieni sequestrato, vuol dire che qualcosa non ha funzionato nell’organizzazione del tuo viaggio. Quindi, in ogni caso, non è una cosa di cui puoi andare fiero. Non è un motivo di vanto. Sono stato riconoscente alla città di Cetraro e a tutta la comunità che mi ha sostenuto in quei giorni. Sono, ovviamente, contento di essere tornato e so di aver rischiato di non tornar più, però non è un’esperienza da raccontare come un vanto. È un inconveniente. Un inconveniente che è capitato a molti altri giornalisti prima e dopo di me. E io sapevo che andando a fare un certo tipo di lavoro c’erano dei rischi. Io vado dove c’è la guerra. Sotto le bombe. Certo, ci sono anche altri modi di fare questo mestiere, ma io è l’unico che conosco: per raccontare della guerra devi esserci, nella guerra.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Beh, quegli 11 giorni li ho vissuti in maniera molto lucida. Nel senso che sapevo di dover mantenere la calma. Ero responsabile degli altri tre che erano con me: ragazzi che io avevo coinvolto. Mi sentivo molto responsabile, quindi. E in queste situazioni se si perde il controllo dei nervi o ci si lascia andare al panico, si rischia tanto. Poi ci sono state due finte esecuzioni… beh, sono situazioni in cui ci vogliono nervi saldi. Io son riuscito a mantenerli. Poi è chiaro che quando torni hai comunque un crollo: io per mesi ho rivisto in sogno la faccia nera del mio sequestratore, con il passamontagna, i suoi occhietti neri che mi guardavano e la pistola che aveva in mano. Quella me la porto dietro…
Finita questa brutta avventura, hai pensato di mollare?
No, mai. Questo è il mio mestiere. È un po’ come quelli che cascano da cavallo… devono tornarci su. E subito, o dimenticano come si cavalca.
Torniamo ancora indietro e parliamo de “La guerra in diretta”
È un libro che risale a 11 anni. Avevo del tempo libero e l’ho scritto. Poi ero reduce da diverse esperienze di guerra: l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina. Ho avuto la disgrazia di veder morire un mio amico e collega, in quel periodo,e avevo voglia di raccontare tutto, ma non per vantarmi di quello che facevo. Poi volevo raccontare una tendenza che stava assumendo il giornalismo italiano: sempre meno racconto giornalistico e più spettacolo. Era il periodo in cui Bruno Vespa cominciava a fare i suoi programmi. Programmi, diciamo, non del tutto informativi. Ricordo di aver fatto collegamenti con trasmissioni tipo “La vita in diretta”, dove non mi chiedevano di raccontare ciò che accadeva, ma mi dicevano “tieni il microfono alto così sentiamo le bombe, che alla gente piace sentirle…”. Una volta, a Natale, mi chiesero di fare un servizio sugli alberi di Natale a Kabul…
A quale dei tuoi ultimi lavori tieni di più?
Quello che abbiamo fatto in Siria. Precedente al sequestro. Risale a ottobre 2012. Un reportage dal titolo “Siria 2.0, la battaglia di Aleppo”. Eravamo tre giornalisti senza camera. Solo telefonini. Andava in diretta tutti i giorni sul sito web di Repubblica e sul portale della RAI. È stato un reportage molto forte: cannonate, urla, dolore… È un reportage che ha vinto diversi premi internazionali. C’è molto patos. Lo trovate anche sul sito de “La storia siamo noi” o sul mio blog (www.amedeoricucci.it).