I fatti di Cetraro: il commento di don Ennio

Il lungo post che abbiamo dedicato alla piccola “rivolta” degli immigrati ha avuto un grande seguito, sia sul sito di Cetraro in Rete che sui social network. Se da un lato ci ha fatto piacere, dall’altro, leggendo i commenti che sono stati lasciati al post, ci ha fatto seriamente riflettere. Ci ha fatto riflettere su un gruppo di persone che ha fortemente criticato la manifestazione. Un metodo di manifestare – precisiamo – che è sicuramente da condannare e, che anzi, ha procurato numerosi danni. Morali più che materiali. Ma tutto ciò non giustifica le frasi del tipo “mandiamoli a casa” o “vu’ cumpra’ tornatevene a casa”, lasciate su Cetraro in Rete. Commenti che abbiamo preferito far rimanere sul post affinché tutti possano leggerli.

Volevamo rispondere a queste persone. Ma a farlo, al posto nostro, è stato – in maniera indiretta – don Ennio Stamile che ha pubblicato su Il Quotidiano di oggi una lettera dal titolo Qualunquismo egoista contro gli immigrati. E io vado via con loro.

Ecco il testo.

La vibrante e a tratti violenta protesta dei profughi provenienti da Lampedusa ospitati a Cetraro, di sabato 4 febbraio, è un fatto che ha lasciato inizialmente tutti sgomenti. Nessuno si aspettava, infatti, che trenta dei circa settanta uomini provenienti da diversi Paesi dell’Africa sub-sahariana reagissero in modo così esagitato. Non se lo attendevano innanzitutto i cetraresi, che sono abituati a convivere con loro ormai da ben nove mesi, dando prova di accoglienza, vicinanza e integrazione, non se lo attendevano le forze dell’ordine, che ritenevano, e a ragion veduta, quello di Cetraro come il centro che non dava problemi di sorta, non se lo attendevano neanche gli operatori che svolgono servizio nell’Hotel Piazza provvisoriamente allestito a centro di accoglienza.
Dopo aver affrontato prontamente l’emergenza assieme alle forze dell’ordine, all’assessore alle Politiche sociali ed al sindaco di Cetraro, a Carmine Federico, vicepresidente del Consorzio di cooperative sociali “CalabriAccoglie”, che sta svolgendo un ottimo lavoro di accompagnamento attraverso l’opera di qualificati operatori e mediatori culturali, ora è il tempo della riflessione.
Nell’incontro con coloro i quali abbiamo ritenuto essere i promotori della rivolta, abbiamo cercato di far comprendere che i diritti non possono essere fatti valere con la violenza, che non è mai giustificabile e che rende immediatamente ingiunto qualsiasi sacrosanto diritto. Evidentemente, avranno imparato anche dai media, che in Italia la protesta deve dar fastidio, deve interrompere servizi, com’è accaduto con l’ultima protesta dei Tir che come la neve di questi giorni ha bloccato tutta Italia, altrimenti non ottiene un bel niente. Come dargli torto, purtroppo.
Ma per tornare al motivo della rivolta credo che questo meriti una particolare attenzione. Ebbene, nonostante siano trascorsi ben nove mesi dalla loro presenza in Calabria i permessi o dinieghi non gli sono ancora stati notificati. Motivo di questo assurdo ritardo è la penosa macchina burocratica all’italiana messa in pieni per il riconoscimento dello status.
A Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto ha sede la Commissione territoriale, che ha il compito appunto di verificare le condizioni per il riconoscimento dello status e si deve occupare dei 1.600 richiedenti asilo dell’emergenza Nord-Africa calabresi, del migliaio di richiedenti asilo presenti nel “Cara” e anche di quelli della Basilicata. Viene da sé che i tempi divengano biblici.
Il 18 febbraio dello scorso anno una delegazione del Comitato parlamentare Schengen-Europol-Immigrazione, guidato da Margherita Boniver, ha visitato il centro d’accoglienza di Sant’Anna ritenendolo «adeguato a sostenere l’emergenza».
Ma non una parola spesa per la lentezza dei riconoscimenti e dei fondi messi a disposizione dell’Italia e dell’Europa che, manco a dirlo, come al solito arrivano in grave ritardo, costringendo gli operatori a volte anche a ricorrere a mutui per fronteggiare le notevoli spese di gestione. Da numerosi reportage, quello di Crotone, oltre ad essere il più grande d’Europa è anche il più lento nei riconoscimenti dello status degli immigrati, questo non solo perché in Calabria ne esiste solo uno, ma anche per la farraginosa macchina burocratica di cui l’Italia è maestra. Ciò non solo provoca disordini e proteste varie, ma rischia di vanificare gli sforzi e l’impegno profuso dalle realtà che gestiscono i centri di accoglienza dislocati in Calabria: è la notevole fatica spesa per l’integrazione. A Cetraro, nel momento della protesta sono venuti fuori i soliti slogan frutto di un qualunquismo bieco ed egoista del tipo, «se ne devono andare, altrimenti siamo noi a protestare» ed altri simili. Visto che le mie omelie da un po’ di tempo a questa parte provocano diverse reazioni, riporto qui di seguito un passaggio di quella pronunciata domenica nella messa celebrata con i ragazzi: «Che strano, se ne devono andare gli immigrati che hanno sbagliato – e lo hanno ammesso anche per iscritto con una lettera di scuse inviata al sindaco – una sola volta, ma deve restare chi spaccia quotidianamente, rapina gli anziani che si recano in pellegrinaggio ogni mese all’ufficio postale per riscuotere le pensioni, riempie di botte i disabili perché non trova soldi nelle loro case, scassina case, traffica in armi, spara, brucia o danneggia le auto, manda teste di maiale mozzate non certo come invito a pranzo, ed altro. Loro possono restare, in fondo bisogna imparare a convivere con queste ed altre situazioni simili». La conclusione – volutamente provocatoria – è stata questa: «Se se ne devono andare gli immigrati allora io vado via con loro».