Due anni fa, ho incominciato a seguire assiduamente Cetraro in rete perché avevo avuto l’impressione di poter raccogliere su questo sito del materiale utile a scrivere un saggio che avesse come argomento la psicologia dei cetraresi o meglio alcuni aspetti della psicologia della nostra gente.
Da ragazzo ero rimasto colpito dal fatto che i nostri concittadini, in modo esagerato, veneravano i preti e i forestieri e poi da giovane avevo constatato che il nostro paese, innanzi ai suoi figli migliori, più dotati intellettualmente, anziché spronarli e apprezzarli, preferiva farli oggetto d’invidia. Cetraro Nova, il 16 aprile 1909, scriveva: “Peccato che Cetraro non cerchi affatto d’incoraggiare queste nostre giovani energie e debba invece servirsi sempre del forestiero”. Desideravo una spiegazione e la cercavo nel campo della psicologia.
Il termine psicologia, etimologicamente, significa “scienza dell’anima” ed esso, come disciplina scientifica indipendente, a partire dalla fine dell’Ottocento, indica la “scienza dei fatti di coscienza” o la “scienza del comportamento”.
L’idea che il cetrarese fosse portatore di una sua particolare psicologia l’avevo intuita da molto tempo. Essa, negli anni, si è alimentata delle opinioni di conoscenti e di amici.
Ventuno anni fa, su “Nuova Comunità”, scrivevo: “Viaggiando in treno da Paola a Roma, ho avuto il piacere di sedere accanto a un noto meridionalista, il dott. Nicola Zitara…Nell’intenso dialogo, durato cinque ore, mi ha colpito, relativamente al mio Paese, una frase “buttata” lì per ischerzo: “E’ cumi a Musica d’u Citraru”. La frase, nella lontana Siderno, viene citata negativamente, per indicare un concerto bandistico…in cui ognuno suona per conto proprio”.
A Cetraro, ognuno presume di essere un solista, un elemento importante nel proprio ambiente. Proprio questa convinzione, nell’articolo “Cetraro: scrittori, poeti, critici”, mi ha fatto affermare che, nel nostro paese, nessun cetrarese sarà mai riconosciuto precursore o caposcuola di mode letterarie. Sul giornalino della Pro Loco (marzo 2001), ho scritto “che se Dante e Michelangelo fossero nati e vissuti nel nostro paese, i loro nomi e le loro opere difficilmente sarebbero passati alla storia. Cetraro non aiuta i suoi figli; la vocazione di Cetraro è quella di distruggere e di dimenticare”. Nella mia fallace convinzione, il comportamento del cetrarese va al di là del “nemo propheta in patria” e di un puro spirito di dissociazione.
Il De Giacomo, nell’Athena Calabra, nel lontano1928, scriveva: “Ricorrono, i cetraresi, a tanti Beati e Santi di fuori, ma nessuno or sa dei Beatificati e Santificati suoi”. Lo scrittore cetrarese, parlando di sé e del paese natio, aggiungeva: “…non seppe comprenderci,…non seppe tutelare i nostri diritti spirituali,…non seppe accogliere l’anelito insonne del nostro spirito e non seppe purificarsi delle scorie che antichi odii e rancori recenti e invidie livide di bile amarissima accumularono nel sangue i nostri prepotenti”.
Cetraro, ai forestieri, appare come un paese debole, incapace di trovare quella forza che viene dall’unione. In un mio saggio, La corte spirituale cassinese in Cetraro, ho scritto che, tra il 1540 e il 1541, pochi malviventi di Bonifati e dei paesi vicini entrarono nel nostro popoloso paese murato compiendo un vero eccidio. Le autorità di Cetraro avevano vietato ai cittadini di Bonifati di pascolare le loro pecore nelle nostre terre. I cetraresi si chiusero nelle loro case e nella Torre campanaria e due eroi della nostra debole resistenza, Giovan Francesco de lo Trono e Giovanni Tommaso de Renda, venivano uccisi sotto l’arco della Porta di Mare. Ai due eroi non sono state dedicate strade.
Sono rimasto meravigliato un paio d’anni fa quando un mio caro ed intelligente amico, in modo autonomo, ha affermato che gli sarebbe piaciuto scrivere un libro sulla psicologia dei cetraresi. Non so se il mio amico abbia abbandonato la sua brillante idea. Da parte mia, devo confessare che, non essendo uno studioso del comportamento e dei processi mentali dell’uomo, ho compreso che non potevo addentrarmi in una indagine che avesse come oggetto “lo studio dell’unità psicofisica dell’individuo, nelle sue caratteristiche conscie e inconscie”.
Pertanto, in questo breve saggio, conoscendo i miei limiti, mi sono soffermato solo su gli aspetti esterni più vistosi che i cetraresi quotidianamente manifestano col loro comportamento e sul loro modo di reagire di fronte a certi stimoli.
Sono stato frenato e limitato nella mia ricerca sia dall’amore per il paese sia dal timore di urtare la suscettibilità dei miei concittadini. Più volte, ho ricordato a me stesso un passo del Vangelo: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Ho scritto poche cose e così, con il Manzoni, posso sperare di non essere colpito dal “ridicolo del disinganno”: se è venuto alla luce un topo, io non avevo detto che dovessero partorire i monti.
L’argomento, la psicologia dei cetraresi, non deve far credere che la nostra comunità sia caratterizzata da una psicologia avulsa dal resto dell’umanità e da un modo di agire, sentire, percepire, comprendere, immaginare che non abbia riscontro nelle popolazioni dei paesi vicini. Parimenti, sarebbe sbagliato vedere gli abitanti di Cetraro come un gruppo monolitico nel quale tutti gli individui abbiano lo stesso comportamento e i medesimi pregi e difetti.
La maggioranza dei cetraresi è composta da gente silenziosa, impenetrabile, insondabile, dedita al lavoro e alla famiglia, non abituata alla lettura, incurante di quello che accade attorno (ma diverso dall’asin bigio che rosicchia il cardo) e da una minoranza rumorosa, vivace, intrigante, maneggiona. In questa minoranza sono inclusi anche i “fissijaturi”, i “pallunari”, i “stancachiazza” e un gruppo esiguo di gente onesta, buona, attenta alla verità e alla giustizia.
La maggioranza non si esprime per quieto vivere, ma anche per un senso di timidezza e di paura. Interprete solitario di questo modo di vedere e di sentire può essere considerato l’anonimo “Enigmista” di “Cetraro in rete”, il quale mette il suo anonimato in relazione ai locali potenti politici (da lui definiti guitti da baraccone) che “decidono del nostro vivere in maniera assoluta”. Egli, in un italiano zoppicante, dice delle verità, e mi fa ricordare del primo Svevo, a cui la non perfetta conoscenza dell’italiano non impedì di essere un grande narratore del Novecento e di darci il messaggio più autentico dell’umanità dei suoi tempi.
Utili al mio discorso sembravano i commenti a ruota libera di tanti lettori di “Cetraro in rete”, il dialetto come la “babele” e l’articolo “Io vivo in un paese strano” di Tommaso Cesareo. Ultimamente ho sperato in un giovane esordiente. Egli descrive bene ciò che appare; soddisfatto degli elementi che riesce a cogliere in superficie, crede di essere bravo e di sapere tutto; a mio parere, pur utile, non approfondisce e guarda il paese dalla campagna, non dall’interno, non dal centro storico verso la periferia.
La stessa cosa fa un attento signore non cetrarese: segnala certi fenomeni, ma, pur potendo fare di più, si rifiuta di risalire alla loro genesi. Egli sa che il male di Cetraro viene dalla non buona politica.
C’è poi un puro, il quale, in modo angelico e ottimistico, preferisce, da pedagogo, sottolineare ed esaltare gli aspetti positivi dell’indole del cetrarese cogliendo un modello di cetraresità che rispecchia, forse, una esigua minoranza e non la generalità dei cittadini. Omnia munda mundis.
Se io fossi un’anima candida, potrei vedere il paese come una unità armoniosa, idilliaca, dove tutto è impostato sulle virtù, Liberalità, Magnanimità, Castità, Fortezza, Giustizia, ecc., come nella “Città del Sole” del Campanella. Ammiro i puri, ma bisogna guardare anche il rovescio della medaglia.
Se io dicessi che a Cetraro, negli Anni Cinquanta, probabilmente, c’era un personaggio indirettamente vicino alla struttura della Gladio, passerei come un visionario o come un uomo affetto da decrepita senilità; parimenti, non mi è consentito chiedere che fine hanno fatto i beni dell’ECA, di cui parlava ancora la stampa all’inizio degli Anni Sessanta.
A mio parere, cetraresi non si diventa; i non indigeni possono amare il nostro paese più di noi cetraresi, ma essi rimarranno sempre degli estranei; cetraresi si nasce; si è cetraresi non per puro determinismo geografico, bensì per atavica tradizione di famiglia, per una sorta di D.N.A.
Il cetrarese, prodotto della secolare dominazione e cultura benedettina, tranne qualche eccezione, o è mezzo prete o è diavolo (così è visto Benedetto La Costa da un prete di Cetraro). Don Ciro del Trono, persona intelligente, mi parlava di satire in cui i Sindaci di Cetraro, dell’inizio del Novecento, venivano definiti sagrestani orgogliosi di reggere il baldacchino nelle feste religiose.
I cetraresi, per secoli, hanno goduto, come martiri, il supplizio della miseria e delle angherie imposte dalla Curia cassinese e cosa sorprendente hanno più volte invocato l’Abate affinché non vendesse ad altri la loro terra e li facesse vivere sotto l’antico dominio.
La dominazione benedettina, a Cetraro, è stata insensibile ai bisogni del popolo fino al punto di vietare, con appositi bandi, la raccolta di “patelle” dagli scogli. I Sindaci e gli altri rappresentanti dell’università, lungi dal perorare la causa dei bisognosi, hanno sempre eseguito le disposizioni della Curia cassinese, sicuri di essere compensati.
Gli eredi di quei sindaci o i parenti dei vicari spirituali, dopo l’eversione della feudalità, li troviamo proprietari delle terre del nostro paese e da loro, fino alla metà del Novecento, sono usciti gli amministratori.
I preti, eredi ed esponenti della tradizione benedettina, hanno imbrigliato il pensiero laico e rafforzato il bigottismo. Non sono un avversario di coloro che hanno fede, anzi io sono un loro ammiratore perché, come dice San Paolo nella lettera agli Ebrei, la fede è “sostanza di cose sperate e argomento di quelle che non si vedono”.
Come ho scritto in un mio saggio pubblicato nel 2004, a Cetraro, negli anni 1903-14, c’erano ancora cattolici (Samuele Occhiuzzi) favorevoli al potere temporale dei papi. Nessuno può negare l’attaccamento ai preti, nessuno può negare la centralità dei preti nella vita sociale, politica e amministrativa di Cetraro. Ricordo che tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, alcune ragazze di Cetraro colmavano di ingenua attenzione un giovane prete forestiero non insensibile al fascino femminile.
In questi ultimi cinque lustri, la sinistra, un rifugio di sacrestani, di gesuiti, non si è battuta contro il clericalismo vieto e conservatore e a favore della laicità del pensiero e i inoltre i suoi sindaci, anche quando provenivano dal popolo, hanno seguito le orme dei predecessori già muniti dei crismi benedettini e abbaziali. Continuità di atteggiamenti.
L’ala estrema della sinistra, con la sua retorica ideologica, si è risentita solo quando le sono state sottratte le cariche; mai una parola di sostegno a chi difendeva la laicità del pensiero. La Sinistra, nel consiglio comunale del 22 luglio 1991, chiamata ad esprimersi sulla “Intitolazione delle strade”, accettò, oltre alla richiesta del consigliere Montalto, la mia proposta di dedicare una via ai La Costa, una famiglia di illuministi e di eroi del Risorgimento, ma subito dopo dimenticò.
Già nell’ottobre 1988, in Nuova Comunità, e nel 1993, in La Corte spirituale cassinese in Cetraro, scrivevo: “I monaci cassinesi,… hanno impresso qualche segno profondo in una parte della popolazione di Cetraro:
- Religiosità esasperata ed irrazionale che suscita sconcerto in alcune famiglie di antica origine e con molti preti nel loro albero genealogico;
- Complesso d’inferiorità nei confronti del forestiero che ha il suo rovescio nel comportamento da superuomo nei confronti del proprio concittadino”.
I solisti della “Musica d’u Citraru”, di cui ho parlato, ne sono una prova.
Pochi anni fa, ho nuovamente parlato della nefasta eredità della dominazione benedettina e del complesso d’inferiorità che i cetraresi hanno nei confronti dei forestieri. Questo atteggiamento dei cetraresi, a mio parere, è la manifestazione di una inconscia continuità con un mondo scomparso o meglio una conseguenza diretta dell’antica tradizione, secondo cui i capitani e i vicari titolari, insomma le persone che contavano, non dovevano essere cetraresi.
I notabili di Cetraro non davano, ai figli o alle figlie, il consenso di sposare gente onesta del popolo ed invece non guardavano al ceto sociale quando si trattava di forestieri.
Ho scritto altrove: “Ben vengano a Cetraro la persone capaci d’adempiere ai compiti di guida del paese o di svolgere altre delicate funzioni”. Tante famiglie di origine non cetrarese hanno onorato ed onorano la nostra città. Personalmente, non gradisco quei forestieri che vogliono emergere senza meriti.
Vorrei ricordare che, fino agli Anni Trenta, alcune donne, molto religiose, non tenevano in casa animali domestici di sesso maschile, né mangiavano pesci o carne di animali i cui nomi erano di genere maschile. Ogni essere maschile rappresentava la tentazione, il peccato.
Qualcuno sostiene che Cetraro brilla per la luce dei suoi numerosi talenti. Io ritengo che i talenti veri (persone dotate di alto ingegno e capacità) siano pochi. Non considero talenti i giovani illuminati da alcuni “soli” extra-terrestri.
Per gli aspiranti politici, in un paese dove regna un incontrastato squallore (rilevato da altri), accaparrarsi la benefica luce di questi roventi astri è la “condicio sine qua non” e un ottimo viatico per il successo e per entrare in Paradiso. Il divino riverbero o flusso benefico di detti fuochi compensa largamente l’umiliante genuflessione e il distacco di una ammirevole tradizione di famiglia fatta di orgogliosa onestà e rettitudine.
I critici, al Machiavelli, hanno fatto dire: “il fine giustifica i mezzi”. Il desiderio di fama può giocare brutti scherzi anche in figli di padri onesti. Io credo nei giovani che affermano di cercare il proprio interesse nel bene comune, tuttavia non posso non rilevare che tanti di essi, entrati nella stanza dei bottoni, hanno subito vistose metamorfosi; si sono preoccupati di coltivare il loro orticello. C’è bisogno di verità a Cetraro. Senza conoscere la storia di Cetraro, sono loro che decidono a chi dedicare le nostre strade. Un esponente dell’Amministrazione esalta l’operato dell’esecutivo di cui fa parte ed invece l’anonimo Kerouac definisce l’attuale compagine amministrativa come un gruppo mediocre e sciagurato.
A mio parere, detto gruppo è lo strumento inconscio di alcuni non indigeni, i quali, detenendo il monopolio della cultura e della politica, applicano il motto latino “divide et impera”.
A Cetraro, come avrebbe detto l’Apostolo di Tarso, c’è chi è di Paolo, chi di Apollo, chi di Cefa, chi di Cristo. In questo ultimo decennio, nel nostro paese, si è uniti ancora di meno in uno stesso sentimento e in uno stesso modo di pensare, perché, come a me hanno detto in tanti e come io stesso ho verificato, ci sono persone che seminano scissioni. Un contributo serio alla questione da me sollevata può venire da opportune ricerche e non da semplici giudizi. Se la mia analisi è sbagliata, chiedo venia.
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Nota dell’autore: “Il mio saggio è un tentativo di interpretazione della realtà cetrarese effettuato con l’umiltà dello storico, con la consapevolezza dell’esistenza del principio della relatività e con il coraggio o temerarietà del ribelle che si illude di dover fare qualcosa per migliorare il proprio paese. La resa alla realtà è dei pragmatici integrati. Rilevare che, in tutto il mondo e quindi anche a Cetraro, vi siano persone che dividono e provocano scissioni è un fatto antico. S. Paolo nella lettera a Corinzi affronta questo tema“.
Nota dell’autore (2): “Ringrazio sentitamente gli amici, che, dopo aver letto il mio saggio, Psicologia dei cetraresi, hanno fatto pervenire al mio indirizzo di posta elettronica, leonardo.iozzi@libero.it, il loro messaggio di apprezzamento per il mio tentativo di interpretare la realtà cetrarese. Saluti. Leonardo Iozzi“.