Di cognome si chiamava Chiodo ma era grasso e grosso come un armadio. Il nome non lo ricordo più, ma ricordo che era un bravissimo ragazzo venuto da un paese interno e frequentava con noi il liceo dei Padri Pallottini, con grande diligenza e buona volontà.
Quando camminava, date le oscillazioni laterali che la mole comportava, occupava il posto di tre persone. Da fermo ne occupava più o meno due.
In classe, al banco dietro di lui sedeva Carletto Battaglia, sornione e burlone fino all’inverosimile che da grande, fa il farmacista in Puglia dov’è felicemente sposato e ha famiglia. Nome e cognome sembravano essergli cuciti addosso, tanto ne dipingevano rispettivamente statura e carattere, mingherlino com’era e sempre in preda al moto perpetuo. Battaglia di nome e di fatto, potremmo dire, per quello che stava per combinare.
Quello che, invece, non sembrava affatto cucito addosso, era il vestito del povero Chiodo, perché gli stava assai stretto e lo serrava come una soppressata, vuoi perché erano anni che se lo portava addosso e si era ristretto nel tempo, vuoi perché il contenuto, evidentemente, si andava allargando con l’avanzare dell’anno scolastico.
Carletto, per seguire le spiegazioni del professore di turno, era costretto a spostarsi con la testa ora a destra ora a sinistra, impallato com’era dalle spalle a schermo panoramico di Chiodo.
Su quello schermo, quando non si spostava, gli era di fronte un’enorme giacca che, stretta com’era, evidenziava, al centro, i punti della cucitura tesi come… corde di un arco pronte a scagliare la freccia.
Io sedevo in posizione strategica nella fila posteriore, lateralmente ai due, e avevo modo di osservare Carletto e le sue sofferenze quotidiane.
Un giorno, durante l’ora di Religione, dal mio osservatorio mi accorsi che Carletto ne stava preparando una delle sue ed ebbi veramente paura, perché a insegnare Religione era allora don Amoroso in persona, Preside e Rettore dell’Istituto, persona rigorosissima e molto temuta.
Se avessi potuto, avrei cercato di dissuadere il mio amico dal proseguire, ma con don Amoroso non era possibile farsi vedere in alcun modo distratti per cui dovetti rimanere in silenzio e osservare. O meglio, cercai di attirare con cenni della mano l’attenzione del compagno che si trovava dietro Carletto, per implorare il suo aiuto ma quello era troppo attento a seguire la lezione e non si avvide né di Carletto né di Chiodo, né delle mie segnalazioni.
Carletto aveva in mano una lametta e scrutava attentamente i movimenti di Chiodo in attesa della posizione più favorevole per entrare in azione. Avevo intuito le sue mosse ma non avevo calcolato appieno le conseguenze disastrose che ne sarebbero derivate.
Quando Chiodo si sporse in avanti appoggiando gli avambracci sul banco, i punti della cucitura al centro della giacca furono al massimo della tensione e Carletto, che non aspettava altro, fece scattare il suo piano. Avvicinò appena la lametta a uno di quei punti e di botto… la giacca esplose spalancandosi in due parti e provocando un rumore simile a una fragorosa pernacchia.
Quello che successe in quell’aula di liceo non è descrivibile: dirò soltanto che, per colpa del nostro Carletto, don Amoroso punì tutta la classe, com’era suo costume, facendoci rimanere ciascuno al proprio posto, immobili e affamati, fino a sera mentre i genitori attendevano fuori.
E il povero Chiodo se ne tornò, infine, in maniche di camicia, con i libri sotto un braccio e le due… metà della giacca sotto l’altro.