I miei incontri con Annalisa, in occasione del suo lavoro di ricerca e preparazione della tesi triennale dedicata al caso Losardo, sono stati assistiti da un segno beneaugurante e fortunato.
Se parlo di fortuna non lo faccio per piaggeria verso di lei.
Quando Annalisa è venuta da me la prima volta e mi ha chiesto di poter esaminare per la sua ricerca gli atti del processo ed i documenti di mio padre mi sono trovato in grande difficoltà: questa documentazione non l’avevo più con me e anzi ritenevo che fosse andata smarrita e disperavo comunque di poterla recuperare. Era accaduto che avevo affidato tutto il materiale in mio possesso ad una studentessa, che stava svolgendo anche lei la tesi di laurea sulla medesima vicenda; ne avevo annotato il recapito sul mio cellulare, ma avevo dimenticato di riportarlo nella rubrica cartacea, poi il mio telefonino si era rotto e non mi era rimasto altro indizio, per poter rientrare in possesso dei documenti, che il cognome della ragazza. Non sapevo cosa fare, ma Annalisa non si è perduta d’animo: poco tempo dopo mi disse di avere rintracciato e contattato la ragazza e di lì a poco tutta trionfante riportò i faldoni al mio studio.
Credo che per mettersi sulle tracce della studentessa alla quale avevo dato le carte abbia fatto ricorso a Facebook, dimostrando che si può fare buon uso anche di uno strumento assai discusso e discutibile, che suscita in molti (me compreso) non poche perplessità; ma ritengo che in definitiva sia riuscita a portare a buon esito anche questa fase prodromica dell’attività di ricerca, grazie alla sua intelligenza, alla sua dinamicità ed alla sua determinazione.
In seguito ho avuto il piacere di rispondere alle domande, che Annalisa mi ha posto quando il suo lavoro era oramai a buon punto: l’intero colloquio-intervista, debitamente e fedelmente trascritto, compare nella parte finale della sua fatica.
Ho infine assistito, in occasione della seduta di laurea, alla brillante esposizione e discussione dell’elaborato, giustamente coronata dal massimo riconoscimento da parte della commissione esaminatrice ed in quell’occasione ho ricevuto in dono dalle mani della giovanissima autrice una copia della tesi, che custodisco gelosamente.
E’ quindi con grande piacere che raccolgo l’invito a commentare questo lavoro di ricerca, in occasione della sua pubblicazione.
Come ho prima accennato, già in diverse precedenti occasioni avevo avuto modo di parlare di mio padre con studenti universitari, che nel corso degli studi si erano imbattuti nelle vicende storiche legate alla sua morte e che avevano deciso di farne materia della loro tesi di laurea.
Non è per nulla facile ritornare su un fatto, che ha certamente rivoluzionato anche il corso della mia vita, ma da questi incontri in fondo ho sempre ricavato beneficio: la riflessione, sollecitata dalle domande e dalle curiosità dei miei giovani interlocutori, mi è di aiuto ancora oggi nell’elaborazione di un lutto così grave, come quello legato alla perdita di mio padre. Una perdita improvvisa, violenta e innaturale di una persona cara, cui si sia intimamente legati, se nell’individuale percorso di vita (pure a distanza di tempo) non cesserebbe di essere un evento orrendo, incomprensibile, oscuro e minaccioso e quindi inaccettato ed inaccettabile, può tuttavia assumere – quando si abbia l’occasione e lo stimolo per riferirla al percorso evolutivo di un’intera comunità – una sua problematicità e, in una certa misura, anche una sua dinamicità e reversibilità.
Ed allora, anche se ciò è doloroso, risulta possibile e anzi doveroso tornare a ricordare e a riflettere su quelle vicende, perché la memoria e la riflessione – da fatto individuale – diventino parte esse stesse di quel percorso collettivo.
Non che la storia collettiva anche recente lasci intravedere come prossima la fase del riscatto. Difficile pensare ad un ritorno all’impegno attivo di quanti in quegli anni si erano buttati con generosità nell’agone politico con un carico di belle speranze (quelle – descritte nella bella postfazione con cui Annalisa introduce alla lettura della sua tesi – per un mutamento delle classi dirigenti e per un rinnovamento radicale della società e dello stato, specie del Mezzogiorno d’Italia, in senso davvero democratico) e se ne sentirono violentemente espulsi, avvertendo che i colpi sparati il 21 giugno 1980 avevano spento non solo una vita, ma stavano seppellendo anche una stagione politica. E neppure credo (con Annalisa) che la sua generazione se la passi meglio, ché anzi anche a me sembra che effettivamente una parte consistente della nuova generazione alla quale ella appartiene si trovi ancora fortemente disorientata, incapace di scorgere una via di uscita da una pesantissima crisi economica, nella quale è precipitata dopo anni di ottundimento, di falsi idoli, di vacuo ottimismo, e corra il serio rischio di non comprendere quanto quella nostra sconfitta si proietti ancora sulle sue sorti.
Annalisa ci indica tuttavia, con parole che sono di grandissimo ammaestramento per tutti, una strada (probabilmente l’unica) percorribile, per continuare ad alimentare una speranza di rinascita: quella dell’esame delle condizioni storiche in cui è maturato l’omicidio Losardo, sorretto ed alimentato da una grande passione civile.
Della profonda, travolgente passione civile di Annalisa, quel miscuglio di affetti, di nostalgie e di rabbia, che fin dall’inizio della sua fatica l’hanno spinta a mettersi come un segugio instancabile sulle tracce delle carte perdute; e che (per usare ancora un suo concetto) hanno fatto virare “con spontanea sicurezza” l’attenzione di questa giovane storica su quella data – 21 giungo 1980 – cruciale come una sorta di 11 settembre della generazione nostra e dei nostri padri; di tutto questo ho detto sopra.
Vorrei dire adesso alcune cose del contenuto della sua tesi, che ho trovato particolarmente interessanti, per arrivare poi ad una riflessione sul nostro presente.
Annalisa fin dal primo capitolo affronta il nodo dei collegamenti tra politica e criminalità organizzata, cogliendo aspetti fondamentali dei processi politici, delle dinamiche economico-sociali e dell’evoluzione criminale, che si sono prodotti in Calabria a partire dal secondo dopoguerra.
L’analisi è molto raffinata, articolata e complessa e spazia dall’esame dell’incidenza sulla struttura economica dei diversi interventi pubblici attuati nel periodo postbellico (e delle cause del loro fallimento), alle dinamiche indotte all’interno del blocco di potere dominante dall’innestarsi di forme risalenti (le “sopravvivenze”) di aggregazione e coesione sociale ed economica (le “parentele”, le “clientele”, ecc.) sulle nuove strutture di raccordo tra società e stato (i partiti politici di massa); all’evoluzione della criminalità organizzata in Calabria e nel cosentino, esaminata nelle sue diverse fasi e forme (la cellula mafiosa a base familistica di impianto tradizionale, il gangsterismo, la cosca para-mafiosa).
L’esame viene condotto lungo tutto l’arco dalla metà degli anni 40 agli anni 80.
Punto centrale della tesi di Annalisa mi pare sia costituito dalla considerazione che con il realizzarsi nella metà degli anni settanta della saldatura tra criminalità mafiosa e politica (con l’entrata diretta in politica di uomini legati alle cosche) e con la conseguente contrapposizione tra i partiti legati al blocco di potere dominante e la forza di opposizione politica (il PCI) che con maggiore determinazione conduceva la sua lotta in difesa della legalità, dell’onestà e della moralità, si siano determinate le spinte fondamentali, che avrebbero portato ai due grandi omicidi politico-mafiosi dell’estate degli anni ottanta in Calabria, l’omicidio Losardo e l’omicidio Valarioti.
La tesi esamina diffusamente le reazioni delle diverse forze politiche ai due delitti e dà conto della polemica tra Berlinguer da un lato, che aveva visto nell’uccisione dei due esponenti comunisti un attacco alla forza più conseguente nel contrasto alla mafia, e Mancini ed i socialisti dall’altro, che accusavano il segretario del PCI di volere strumentalizzare i due delitti, per coprire le difficoltà politiche del PCI ed offuscare le ragioni dell’affermazione elettorale del PSI: una polemica alla quale (lo dico qui per inciso, ricordando un particolare poco noto) partecipammo direttamente noi familiari, allorquando – in seguito ad un comizio tenuto da Mancini a Cetraro, nel corso del quale l’esponente socialista aveva offerto la propria copertura politica alla famiglia Cesareo – mia madre fece pervenire ad un quotidiano una nota di stupore e di condanna per tale posizione.
Annalisa conclude il suo percorso analitico, evidenziando correttamente che la caratterizzazione politica dei due omicidi è da riferire al modo in cui entrambe le vittime, attingendo ad una lunga tradizione culturale e politica (quella dei comunisti italiani), avevano saputo interpretare con rigore il loro essere uomini pubblici, uomini delle istituzioni democratiche.
Uno degli spunti più interessanti per una riflessione sul nostro presente che, a mio giudizio, rinviene dall’analisi condotta da Annalisa sulle vicende storiche legate all’omicidio Losardo riguarda appunto la centralità della cosiddetta questione morale e la crisi dei partiti.
Che si tratti di temi dell’attualità non credo possa dubitarsi: gli scandali politici ed i fenomeni di malcostume e di sperpero del danaro pubblico ad opera di alcun i esponenti politici verificatisi di recente hanno raggiunto un tale clamore e suscitato una tale indignazione, da far temere (si pensi all’allarme lanciato nei giorni scorsi dal nostro Presidente della Repubblica) che tutto il sistema partitico possa essere travolto dall’antipolitica e possa trovare presa una qualche forma di nuovo qualunquismo.
Le analisi del fenomeno del malcostume e della crisi dei partiti non mancano certo. Tra le tante pubblicazioni che in quest’ultimo periodo sono state dedicate a questi temi mi piace ricordare in questa sede due titoli: La questione morale, di Roberta De Monticelli e Elogio del moralismo, di Stefano Rodotà .
Non riporterò qui i concetti che queste due grandi intellettualità del nostro Paese hanno espresso nei loro recenti lavori.
Mi preme invece far osservare (e lo ricorda Rodotà nel suo libro) che di questione morale aveva parlato proprio Enrico Berlinguer in una famosissima intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari: l’intervista fu pubblicata il 28 luglio 1981 su Repubblica, a distanza quindi di poco più di un anno dai due gravissimi omicidi politico-mafiosi avvenuti in Calabria e suscitò un acceso dibattito politico (fra l’altro, come si ricorderà, l’intervista fu molto criticata allora da Giorgio Napolitano, che vi colse il rischio di un isolamento politico del PCI).
In questi giorni quell’intervista è stata ripubblicata e anche in questa occasione le polemiche non sono mancate, a conferma (se ce ne fosse ancora bisogno) dell’attualità del pensiero dell’allora segretario del PCI.
Sosteneva dunque Berlinguer: «I partiti sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune».
Sono evidenti i collegamenti tra i temi di questa intervista ed il contenuto del discorso che Berlinguer aveva pronunciato a Cetraro il 24 giugno 1980 ai funerali di mio padre, contenuto che Annalisa giustamente commenta anche nella sua tesi di laurea.
Dico subito che io condivido pienamente l’analisi che veniva fatta da Berlinguer. Se mi è consentita un’autocitazione, in un’ occasione commemorativa di alcuni anni fa ho avuto modo di sottolineare il fatto che non soltanto le forze politiche tradizionali non erano state in grado di raccogliere e guidare i processi di trasformazione sociale, che si erano prodotti in Calabria alla metà degli anni settanta, «verso esiti di rafforzamento delle istituzioni democratiche, ma vi furono casi di forze politiche che, recisi i loro riferimenti culturali ed ideali, divennero esse stesse gusci vuoti, mero strumento per la conquista e il controllo del potere economico, politico ed amministrativo. Si andarono affermando in alcuni partiti politici nuovi gruppi dirigenti, espressione di questi nuovi ceti, che lungi dall’offrire sufficiente resistenza all’assalto che veniva portato ai beni ed ai diritti collettivi ed individuali, videro in questo assalto un elemento di dinamicità della società. V’è da dire che purtroppo la lusinga dell’affermazione individuale anche contro le leggi dello stato, della conquista e dell’esibizione del potere fini a sé stesse ha finito per attrarre anche strati estesi dei ceti intellettuali».
Ma proviamo ora ad aggiornare ulteriormente l’analisi con riferimento al nostro presente.
Intanto una constatazione: tutti i partiti che, sopravvissuti al fascismo, si erano affermati nel secondo dopoguerra anche in Calabria come partiti di massa ed avevano costituito l’ossatura dello stato repubblicano, non esistono più.
Non esiste neppure il PCI, che pure con la sua gelosa diversità aveva rappresentato una positiva eccezione al sistema di potere clientelare (quando non addirittura mafioso) dominante in buona parte della Calabria.
Poco male se queste scomparse avessero almeno prodotto un miglioramento nelle condizioni e nelle prospettive di vita delle popolazioni.
Nulla di tutto questo!
Chi voglia avere un quadro del degrado, che si è ulteriormente prodotto nel tessuto sociale, economico e perfino nel panorama fisico-geografico-urbanistico della regione (e della fascia del tirreno cosentino in particolare), non ha che da leggere il bel libro di Mauro Francesco Minervino, Statale 18 o riflettere sulle recenti indagini della magistratura (in questa stagione finalmente attiva, vigile e non collusa), che hanno portato alla ribalta della cronaca vicende di scorie velenose disseminate dappertutto, di inquinamento e di disastri ambientali, consumate ancora una volta sulla pelle di una regione stremata, diventata seconda la vulgata (e secondo l’esperienza di chi ancora tenacemente vi sopravvive, ché i dati registrati dagli osservatori sanitari evidenziano in alcune zone picchi del tutto anomali e assai preoccupanti di morti per malattie oncologiche e per altre patologie legate a fenomeni di inquinamento) una delle pattumiere d’Italia.
I meccanismi di questo degrado sembrano ricalcare in tutto e per tutto quelli già conosciuti dello pseodosviluppo mafioso, portati forse alle estreme conseguenze: se il fine è sempre quello dell’arricchimento individuale, rapido e ad ogni costo, della massima privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, nulla di strano che questo fine venga perseguito ricorrendo ove occorra anche al crimine ambientale o al deturpamento delle bellezze naturali, storiche e artistiche, con quella protervia e mancanza di scrupoli che è propria della criminalità mafiosa; ed anche se è vero che la protervia mafiosa, che si è imposta in Calabria negli anni di fuoco, non ha prodotto recentemente fatti di sangue eclatanti e cruenti come quelli degli anni ottanta, tuttavia se ne avverte la presenza incombente sotto forma di minaccia apocalittica, capace di ipotecare perfino le speranze e le condizioni di vita delle generazioni future.
Questo quadro rende d’altra parte evidente che l’insieme delle nuove formazioni politico-partitiche, affermatesi a seguito degli sconvolgimenti dei primi anni novanta, nel suo complesso non è riuscito a produrre capacità di governo e classi dirigenti all’altezza del compito, già di per se difficilissimo, di imprimere un mutamento di rotta nelle sorti del Paese in generale, nel Mezzogiorno e nella Calabria in particolare.
Anche a rischio di sembrare affetto da inguaribile nostalgia, dirò che a mio giudizio proprio la fine della formazione politica (il PCI), che con maggiore consapevolezza aveva avvertito i rischi in atto di una trasformazione del sistema dei partiti in macchine di potere, ha comportato che si verificasse in Calabria un ulteriore abbassamento della capacità di produrre un controllo democratico sulla gestione della cosa pubblica, con il conseguente complessivo scivolamento verso gli esiti, che ho prima descritto.
Lo si volesse o meno, la fine del PCI con l’accantonamento anche del modello di partito di derivazione gramsciana (il partito politico di massa, inteso come intellettuale collettivo, organico alla classe sociale di cui è espressione e guida), lungi dal produrre un ulteriore avvicinamento al governo delle forze sociali, che ne erano state tenute lontano durante tutta la fase storica della guerra fredda (per via di quel sistema bloccato che precludeva pregiudizialmente la partecipazione al governo del PCI, in quanto forza politica ritenuta collegata ai paesi dell’est europeo) e consentire un effettivo allargamento delle basi democratiche del paese, si è risolto invece in un indebolimento assai grave della democrazia: basti pensare alla costante riduzione dei votanti alle elezioni politiche, all’affermazione del modello di partito a guida carismatica o comunque personalistica ed al successo del berlusconismo.
Voglio richiamare una circostanza, che credo illustrerà meglio di mille discorsi quel che intendo dire.
Spulciando nell’archivio storico digitale dell’Unità ho trovato che il nome di Giovanni Losardo vi ricorre ovviamente numerose volte, nei vari articoli che furono scritti in seguito al suo assassinio ed in relazione alle vicende giudiziarie che ne seguirono. Ho trovato però che il cognome di mio pare ricorre anche in alcuni numeri dell’edizione nazionale (in aggiunta a quelli dell’edizione regionale, alla quale mio padre aveva collaborato negli anni cinquanta come corrispondente locale: circostanza, questa, ricostruita con puntualità da Annalisa nella tesi), che risalgono ad un periodo antecedente la sua uccisione.
Un numero del giornale, risalente addirittura al 7 ottobre 1954, nel riportare le opinioni dei lettori sulle caratteristiche del quotidiano comunista, riferiva: «Il compagno Losardo di Cetraro rileva, invece, che i giri della prima pagina sono troppi e che molto spesso è difficoltoso per i lettori trovare il resto dell’articolo. Egli propone di modificare questa consuetudine che riconosce non solo nostra ma di tutti i giornali». Probabile che il Losardo in questione fosse addirittura mio nonno Peppino. Vi è poi un numero, pubblicato il 22 marzo 1980 (appena tre mesi prima della morte di papà!), che nel dare conto delle sottoscrizioni dei militanti e simpatizzanti in favore del rinnovamento degli impianti tipografici del quotidiano, organo del PCI, riporta: «I dipendenti giudiziari di Paola L. 36.000; Giovanni Losardo di Fuscaldo L. 10.000».
Orbene: i suggerimenti sul modo di pubblicare gli articoli nel giornale di partito; le sottoscrizioni dirette o reperite tra i compagni di lavoro (per importi che, se in assoluto non possono definirsi ragguardevoli, rappresentavano comunque una percentuale non trascurabile dello stipendio di allora di un segretario dell’amministrazione giudiziaria; e che dimostrano in ogni caso che un canale di finanziamento pulito e limpido alla politica è possibile solo che lo si voglia, e risiede principalmente nel volontario e disinteressato impegno economico dei militanti); tutto questo dimostra non il semplice attaccamento del militante al suo partito, ma un modo del fare attività politica ed attività intellettuale, dell’essere partito politico, che è andato perduto.
Se in precedenza, parlando del PCI, è sembrato a qualcuno che stessi parlando solo del partito di Berlinguer o di un certo gruppo dirigente (per quanto prestigiosi e dotati di grande carisma siano stati Berlinguer e numerosi altri dirigenti del PCI, usciti in realtà tutti da una selezione durissima, condotta nelle lotte politiche più aspre) ho dato evidentemente un’idea sbagliata di cosa fosse quel partito. Esso, da assai prima del 21 giugno 1980, era anche il partito di Giovanni Losardo, di suo padre Giuseppe e, come loro, dei milioni di militanti e sostenitori; che vi si confrontavano in dibattiti animati (concorrendo quotidianamente, secondo i dettami dell’art. 49 della Costituzione, a determinare la politica nazionale con metodo democratico, assai più di quanto non lo si faccia adesso); che sentivano di partecipare ad un’esperienza collettiva, funzionale non già al conseguimento individuale di un immediato e gretto beneficio, ma finalizzata a trasmettere da una generazione all’altra un patrimonio di conoscenze, frutto di lotte molto spesso pagate personalmente a carissimo prezzo.
Di questa tradizione sembra difficile cogliere, nella vita concreta degli attuali partiti politici, una qualche traccia significativa.
Con l’autoscioglimento del PCI e con lo stesso scioglimento, dovuto agli effetti di tangentopoli, della DC e del PSI (su cui davvero non si ha qui tempo e spazio sufficienti per una riflessione più approfondita) ovviamente ogni rapporto di organicità tra partito politico e classe (o tra partito e chiesa) non ha più ragion d’essere, anche rispetto ad una prospettiva di lunghissimo termine: il partito politico diventa perciò uno strumento costruito e modellato sulla fase contingente, e anche quando si riferisce (in base a tratti ideologici sempre più evanescenti e rarefatti) con preferenza ad alcuni settori della società piuttosto che ad altri, non ha un proprio programma di lungo termine di trasformazione radicale della società, ma ha di mira (specie in un sistema bipolare) molto più semplicemente la conquista del consenso elettorale, in vista della conquista del governo del paese.
In una sistema siffatto il partito politico deve essere leggero per definizione.
Accade così che le formazioni politiche si succedano l’una all’altra con una certa rapidità, con rapidi cambiamenti di gruppi dirigenti o – per meglio dire – con riaggregazioni e ridislocazioni di fette di gruppi dirigenti tra le diverse formazioni, in funzione della definizione degli assetti ritenuti meglio rispondenti all’esigenza di pervenire ad un positivo risultato elettorale (e quindi al governo).
Nei nuovi partiti politici non esistono più basi estese di militanti politici stabili e ideologicamente orientate, come quelle che costituivano l’ossatura dei partiti della prima repubblica, perché non vi è necessità e possibilità che un partito politico costruisca la propria fortuna elettorale su un rapporto di continua osmosi e consultazione tra il proprio gruppo dirigente (esso stesso instabile, in quanto determinato dalle aggregazioni del momento) e corpo dei militanti.
Il PDS, poi i DS ed oggi il PD, per parlare delle maggiori formazioni politiche nate nello schieramento di centro sinistra, che hanno (o hanno avuto) nel loro gruppo dirigente una fetta consistente che si richiama(va) alla tradizione (o comunque proviene dalla scuola) del PCI, hanno dismesso quella circolarità nel percorso decisionale della linea politica e nella formazione e ricambio dei gruppi dirigenti, che il PCI non aveva mai perduto neppure nei momenti di maggiore difficoltà: la linea e la proposta politica sono oggetto di discussioni, valutazioni e deliberazioni assunte quasi sempre al di fuori di procedimenti decifrabili, da parte di circoli e gruppi ristretti, che spesso all’interno dello stesso partito si autorganizzano in fazioni e si autolegittimano; l’esito delle decisioni viene poi calato su una base elettorale, che (salvo il momento pur importantissimo e democratico delle primarie) normalmente è escluso dalla fase di elaborazione della linea.
Gli attuali partiti sembrano quindi funzionare come espressione essi stessi dei diversi gruppi dirigenti. I movimenti difficilmente hanno possibilità di incidere sulle scelte politiche, perché le scelte costituiscono un prius ed una volta stabilite dal gruppo dirigente non è facile rimetterle in discussione: basti pensare al caso del progetto TAV che, nonostante l’esistenza di un ampio movimento radicato territorialmente fortemente contrario alla realizzazione dell’opera, il PD che è il maggior partito del centro sinistra (che quel progetto ha voluto o comunque accettato) non sembra
assolutamente disposto a rimettere in discussione; e neppure sembra volersi dare la pena di dover rispondere alle pesanti e ragionate obiezioni che intellettuali della stesso mondo della sinistra, del calibro di Roberto Saviano e Salvatore Settis, hanno giustamente sollevato anche in relazione ai rischi di penetrazione nell’affare della mafia.
Ovviamente così stando le cose formazioni politiche siffatte sono più facilmente permeabili e condizionabili da gruppi di potere (e, talvolta, anche da gruppi di malaffare), pronti a trasferire il proprio peso elettorale (od economico) dall’uno all’altro candidato, dall’uno all’altro partito o a entrare essi stessi nella scena politica con propri esponenti; e la stessa alternanza dei partiti ai diversi livelli di governo (resa possibile dallo sblocco del sistema) non garantisce neppure la responsabilità politica del ceto dirigente che ha sbagliato, sia perché – in un sistema in cui i partiti non sono più rigidamente divisi da forti opzioni ideologiche – è facile per un qualsiasi esponente che abbia un seguito elettorale passare da uno schieramento all’altro (ed essere accolto indipendentemente dai propri meriti o demeriti, anche extrapolitici), sia perché il sistema offre ampi margini per l’autoassoluzione dei ceti dirigenti.
Dunque la funzione del partito politico come intellettuale collettivo rimane ancora oggi questione centrale di una formazione politica che voglia dirsi di sinistra.
Ma anche nello schieramento opposto c’è da chiedersi dove sia andato a finire il ceto degli intellettuali, quello di stampo tradizionale.
Nelle formazioni politiche del centro destra, almeno quelle costruite su emanazione diretta di un capo carismatico, il rapporto del capo con il resto del gruppo dirigente è reso ancora più oscuro e misterioso: tutto l’organismo politico vive dell’identificazione plebiscitaria tra il capo ed il popolo ed il capo (anche quando sottoscrive contratti con gli elettori) di norma non risponde al popolo delle sue scelte (giuste o sbagliate che siano), delle mediazioni fatte, dei risultati conseguiti, dei dirigenti (talvolta preparati, altre volte no) che ha posto nei luoghi di comando.
Sarebbe facile ironizzare sulle gaffes di una recente ex ministro dell’istruzione, che riteneva fosse stato realizzato un tunnel tra il CERN di Ginevra ed il Gran Sasso; o sui successi politico elettorali (con tanto di laute prebende economiche a carico dell’erario) conseguiti da emeriti analfabeti pluribocciati o da procaci ragazze, portati agli onori della politica e negli scranni dei più alti consessi, per la loro fedeltà al Capo o per le loro prestazioni di natura facilmente immaginabile.
Anche a questi partiti tuttavia rivolgo il mio appello: offriteci dei rappresentanti politici all’altezza dei loro compiti, che abbiano qualcosa a che fare con l’attività intellettuale!
Quello che però è veramente insopportabile è vedere assurgere a funzioni politiche personaggi del tutto improponibili, perché (siano o meno rilevanti le loro condotte sul piano della responsabilità penale) sono stati accertati (e sono oltretutto noti) i loro legami di amicizia con boss mafiosi della peggiore risma: verso costoro qualsiasi forza, che voglia dirsi politica (termine che, per definizione, rimanda al perseguimento del bene della polis), dovrebbe erigere uno steccato.
Ed invece la presente stagione politica ripropone come se nulla fosse alcuni di questi nomi.
Di alcuni di questi personaggi, legati direttamente o indirettamente a Muto, ha raccontato Annalisa nella sua tesi ed anche io me ne sono occupato, in una recente occasione.
Qui voglio dire che questo spettacolo è francamente indecente: il problema non riguarda me, ma dovrebbe riguardare prima di tutto un partito politico che ha responsabilità nazionali, che si richiama oltretutto nel suo nome ad un concetto così elevato come la libertà!
Dulcis in fundo.
Annalisa riporta nella parte iniziale della tesi un bellissimo pensiero di Peppino Impastato sull’importanza della bellezza.
La bellezza – avvertiva l’eroe dei cento passi – è importante più della lotta politica, più di mille manifestazioni, più della lotta di classe.
Se posso permettermi una chiosa al pensiero di Peppino Impastato, direi che la bellezza è importante soprattutto per la lotta politica (e per la lotta di classe).
Kalòs kai agathòs (l’unione del bello e del buono) era il canone estetico per eccellenza degli antichi greci: in altri termini la bellezza implica la perfetta fusione di etica ed estetica.
Il concetto mi è tornato più volte in mente (lo dico anche in una mia risposta ad una delle domande di Annalisa, riportata nell’intervista che sta al termine della tesi), ripensando alle lezioni sulle tante cose belle della vita (tra queste la musica classica) che papà impartiva a noi figli, fin dalla più tenera età.
Non credo che sia per un caso che uomini come lui, come Peppino Impastato, come Peppino Valarioti abbiano avuto nel corso della loro esistenza in così gran conto la fusione di bellezza e moralità, di canoni etici ed estetici, orrore per le brutture del mondo e lotta per l’emancipazione dell’uomo: kalòs kai agathòs, appunto.
A proposito di questo: è bene che chi si appresta a leggere la tesi di Annalisa sappia che l’autrice è anche un’eccellente pianista.